2008:CATTOLICI E LIBERALI PERCHE'?

Nel ‘900, molti liberali europei si sono trovati spesso in conflitto con la Chiesa. L’Italia e la Francia si sono costituiti proprio come Stati-nazione con una lotta (anticlericalismo) nei confronti della Chiesa cattolica. Ora, i tempi sono maturi per superare quel razionalismo chiuso e per aprire il liberalismo al messaggio Cristiano. A tal fine, non occorre che il liberale sia credente (la fede si gioca in un incontro personale con Dio), ma consapevole che sulla cultura Cristiana si è fondata l'Europa.
In passato il progressivo rinnegamento di queste radici ha consegnato il "vecchio continente" nelle mani di regimi liberticidi e sanguinari (comunismo e nazi-fascismo). Oggi il pericolo si chiama laicismo e fondamentalismo! Ecco le ragioni del nuovo progetto liberale: credenti e non credenti insieme per assicurare a Lesina, in Italia, in Europa.. un alba di libertà!

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sede legale: via G. Mazzini, 10- 71010 Lesina (FG)cattolicieliberali@alice.it

domenica 14 dicembre 2008

DIRITTO ALLA VITA CALPESTATO:in arrivo la "kill pill"!

di Leonardo Mandunzio


L’Aifa (l’Agenzia italiana del farmaco) ha annunciato che entro la fine dell’anno verrà commercializzata anche in Italia la pillola (Ru486), la famigerata “kill pill” che provoca l’aborto farmacologico.
Meno male che l'intento del Governo doveva essere quello di migliorare la legge 194, ampliando i poteri dei consultori e dando risorse finanziarie alle donne intenzionate a procedere con la gravidanza...
Per intenderci, non è che non intendiamo il problema, anzi comprendiamo molto bene la situazione ingombrante e imbarazzante di una ragazza che suo malgrado si trova incinta.
Così come capiamo cosa significa avere un figlio fuori dal matrimonio e tutte le difficoltà in cui si possono trovare le persone in questi casi.
Sono drammi.
Ma c’è anche una gerarchia dei drammi e il dramma maggiore è la morte, tanto più se inflitta ad una persona innocente come un figlio che deve nascere. Per questo motivo dobbiamo sempre dire, in modo forte e delicato al tempo stesso, che la vita viene prima di tutto il resto. L’aborto è uccidere, togliere la vita una persona innocente, perché, anche se nei primi momenti della sua esistenza, l’embrione è un essere umano con tutti i diritti
Il ministro Giorgia Meloni, intervistata al riguardo sottolinea che si tratta «di un farmaco potenzialmente pericoloso per la salute delle donne. Inoltre si appella alle «ragazze italiane» esortandole a non considerate la pillola Ru486 un anticoncezionale - perché non lo è.
Si parla tanto di diritti umani…spesso a sproposito e per questioni che non ci riguardano direttamente, tralasciando di difendere il diritto più importante: IL DIRITTO ALLA VITA PER TUTTI (dall'embrione fino al suo termine naturale)
Auspichiamo in tal senso un intervento del Governo Berlusconi, perchè oltre a contrastare la crisi economica, si adoperi con la stessa grinta per arginare anche quella morale!

domenica 7 dicembre 2008

bravo Prof: Senza Dio non c'è libertà!

Siamo contenti dell'uscita di questo nuovo libro da parte del professor Marcello Pera.
Siamo felici perchè questo testo da ulteriore vigore alla nostra battaglia culturale.
Siamo felici perche le maschere che nascondevano le ambiguità dei cristiani "fai da te"(prima catto-comunisti, ora Veltronisti), sono finalmente cadute!
Grazie al Santo Padre e ad un numero sempre più crescente di intellettuali laici e liberali (Antiseri, Pera, Popper, Habermas...) possiamo lavorare, concorrendo nel nostro piccolo, ad erigere una diga contro il relativismo ed il laicismo zapateriano!!!
Leonardo Mandunzio
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All'inizio dell'opera e' riportata una lettera di Papa Benedetto XVI a Marcello Pera in cui il Santo Padre commenta i temi oggetto del libro:
Caro Senatore Pera, in questi giorni ho potuto leggere il Suo nuovo libro Perchè dobbiamo dirci cristiani. Era per me una lettura affascinante. Con una conoscenza stupenda delle fonti e con una logica cogente Ella analizza l'essenza del liberalismo a partire dai suoi fondamenti, mostrando che all'essenza del liberalismo appartiene il suo radicamento nell'immagine cristiana di Dio: la sua relazione con Dio di cui l'uomo è immagine e da cui abbiamo ricevuto il dono della libertà. Con una logica inconfutabile Ella fa vedere che il liberalismo perde la sua base e distrugge se stesso se abbandona questo suo fondamento. Non meno impressionato sono stato dalla Sua analisi della libertà e dall'analisi della multiculturalità in cui Ella mostra la contraddittorietà interna di questo concetto e quindi la sua impossibilità politica e culturale. Di importanza fondamentale è la Sua analisi di ciò che possono essere l'Europa e una Costituzione europea in cui l'Europa non si trasformi in una realtà cosmopolita, ma trovi, a partire dal suo fondamento cristiano-liberale, la sua propria identità. Particolarmente significativa è per me anche la Sua analisi dei concetti di dialogo interreligioso e interculturale. Ella spiega con grande chiarezza che un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile, mentre urge tanto più il dialogo interculturale che approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo. Mentre su quest'ultima un vero dialogo non è possibile senza mettere fra parentesi la propria fede, occorre affrontare nel confronto pubblico le conseguenze culturali delle decisioni religiose di fondo. Qui il dialogo e una mutua correzione e un arricchimento vicendevole sono possibili e necessari. Del contributo circa il significato di tutto questo per la crisi contemporanea dell'etica trovo importante ciò che Ella dice sulla parabola dell'etica liberale. Ella mostra che il liberalismo, senza cessare di essere liberalismo ma, al contrario, per essere fedele a se stesso, può collegarsi con una dottrina del bene, in particolare quella cristiana che gli è congenere, offrendo cos? veramente un contributo al superamento della crisi. Con la sua sobria razionalità, la sua ampia informazione filosofica e la forza della sua argomentazione, il presente libro è, a mio parere, di fondamentale importanza in quest'ora dell'Europa e del mondo. Spero che trovi larga accoglienza e aiuti a dare al dibattito politico, al di là dei problemi urgenti, quella profondità senza la quale non possiamo superare la sfida del nostro momento storico.
Grato per la Sua opera Le auguro di cuore la benedizione di Dio.
Benedetto XVI

lunedì 1 dicembre 2008

LAICISMO, NUOVO TOTALITARISMO!

di Leonardo Mandunzio


Nel '900, l'Europa è stata funestata da due totalitarismi: nazifascismo e comunismo che hanno provocato tragedie immani ed inenarrabili alle popolazioni del "Vecchio Continente"!
Storia vecchia direte voi?
Niente affatto, amici miei!
La storia si ripete perchè un nuovo totalitarismo, più sottile e più subdolo si sta diffondendo in tutta Europa.
Trattasi del laicismo: dottrina che vuole espungere dalla vita pubblica ogni riferimento, sia pur simbolico, al Trascendente, alla fede religiosa.
E' storicamente provato che il primo atto che compie un dittatore quando prende il potere è di mettere il bavaglio alla coscienza dei propri sottoposti al fine di plagiarli.
Questo sta accadendo ormai in alcune nazioni europee, tipo la Spagna di Zapatero, dove assistiamo da diversi anni al tentativo di instaurare la DITTATURA DEL LAICISMO!
Premesso che la Costituzione spagnola protegge la libertà di religione e di culto ed assicura il carattere “laico e neutrale” dello stato spagnolo sui temi religiosi, il Tribunale di Valladolid, ha sostenuto che la presenza di simboli religiosi in posti dove ci sono minori in piena fase di formazione potrebbe provocare in loro la sensazione che lo Stato spagnolo è più vicino alla religione cattolica rispetto alle altre confessioni.
Questa decisione risente del clima "Cristofobico" che si respira in Spagna ed è inconcepibile con le radici cattoliche del popolo spagnolo stesso, perchè la laicità non è una cappa neutra da calare sopra un popolo, ma deve adattarsi alle specificità culturali dello stesso.
Ed in Spagna così come nel resto dell'Europa, il Cristianesimo non è "solo" una religione ma è Tradizione e Cultura.
In Italia, fortunatamente, il tentativo di rimuovere i crocifissi dalle scuole è stato stoppato dal Consiglio di Stato, il quale con decisione n. 556 emessa il 13 gennaio 2006 ha stabilito che l’esposizione del crocifisso va considerata non discriminante sotto il profilo religioso “giacché il crocifisso svolge anche in un orizzonte laico… una funzione simbolica altamente educativa, a prescindere dalla religione professata dagli alunni”.
Per il Consiglio di Stato, quindi, la presenza del crocifisso nelle scuole, prevista da un regio decreto del 1860 e confermata da successive circolari ministeriali, non contrasta con il principio di laicità dello Stato, poiché il simbolo della croce non svolge solo una funzione religiosa, ma esprime anche un richiamo a valori universali, quali quelli della libertà e della tolleranza.
Inoltre i giudici amministrativi ricordano nella citata sentenza che i supremi principi della tolleranza, del rispetto reciproco e della valorizzazione della persona umana storicamente nascono e si sviluppano prima di tutto come valori religiosi, prima di essere recepiti nella Costituzione come principi essenziali del nostro Stato democratico.
Lo Stato laico, dunque, deve essere imparziale verso tutte le religioni, ma non è detto che debba essere anche indifferente ai valori fondativi della sua Costituzione.

sabato 22 novembre 2008

Sentimenti di cordoglio e di vicinanza all'amico fraterno Antonio Colella, per la perdita del caro nonno.

lunedì 17 novembre 2008

Delitto di aiuto al suicidio per chi "spegne" Eluana Englaro

A dirlo, in una intervista rilasciata a Il Foglio il 16 luglio scorso è niente meno che il Padre del Diritto italiano: Giuliano Vassalli, fine giurista, ci spiega che nel diritto vigente non si trova una qualunque base per la decisione della Cassazione.
"Nessuna legge permette che, su volontà del paziente, gli sia tolta la vita"
Il grande penalista Giuliano Vassalli, presidente emerito della Corte costituzionale, già deputato e poi senatore socialista, tre volte ministro della Giustizia, commenta con il Foglio gli ultimi sviluppi - del caso Eluana Englaro: "Siamo di fronte a uno di quei problemi - dice Vassalli - per i quali ognuno sta cercando una soluzione secondo le proprie vedute ideologiche, morali, religiose o non religiose.
Io non voglio entrare nel merito di questi aspetti, ma solo della questione strettamente giuridica, di diritto positivo. E secondo il diritto positivo vigente italiano io non trovo una base per la decisione della suprema Corte di Cassazione".
Quella decisione, come si ricorderà, è alla base del provvedimento esecutivo con il quale la Corte d'appello civile di Milano ha autorizzato pochi giorni fa il padre di Eluana a interrompere la nutrizione e l'idratazione della ragazza attraverso un sondino.
Prosegue Vassalli: "Nutro il massimo rispetto nei confronti del giudice che ha firmato quella sentenza, la dottoressa Maria Gabriella Luccioli, la quale si era laureata con me in Diritto penale a Roma, ed è stata la prima donna magistrato. Ma non trovo né nella decisione della Corte di Cassazione, né nel decreto esecutivo della Corte civile d'appello di Milano - Vassalli scandisce con forza le parole - non trovo, ripeto, la base giuridica rispetto al diritto vigente. Il quale contempla ancora, all'articolo 580 del Codice penale, il delitto di aiuto al suicidio, in qualsiasi modo possa essere dato. Questo vale anche se fosssero vere le interpretazioni sulla volontà dellla persona di non voler vivere in certe condizioni".
L'ordinamento potrà un giorno cambiare, dice ancora Vassalli, "cosi come è cambiato in tanti paesi, ma oggi come oggi i nostri punti di riferimento sono chiarissimi: c'è il diritto costituzionale alla vita, non espressamente menzionato tra i diritti umani nella Costituzione italiana ma che si può ricavare da una serie di disposizioni (come il divieto della pena di morte e quanto a esso si ricollega), ed è ricompreso nel quadro dei diritti umani generalmente riconosciuti.
E' tale nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1948, dove è menzionato proprio come 'diritto alla vita'. E c'è: il nostro codice penale. Il quale prevede, all'articolo 580, l'incriminazione dell'aiuto al suicidio, anche se consumato attraverso forme omissive, mentre non è incriminato il tentato suicidio, come accadeva nel medioevo. Il divieto di aiuto al suicidio è inoltre rinforzato dall'articolo 579, che riguarda l'omicidio del consenziente". Fattispecie giuridica che "serve solo, se c'è il consenso pieno a farsi dare la morte, a trasformare l'omicidio volontario in un delitto meno grave ma comunque grave. Allora non so - prosegueVassalli - da quali principi del diritto vigente si possano trarre decisioni simili a quelle riguardanti il caso Englaro. Le si può forse trarre da principi umanitari e ideali, ma non in base al diritto vigente".
Non c'è nemmeno bisogno di considerare, dice Vassalli, la fondatezza del giudizio di altri, in assenza di disposizioni scritte, sulla volontà della persona, "perché se pure quelle disposizioni esistessero,avrebbero comunque bisogno di essere inquadrate in una legge che permette una simile cosa.
Ma oggi nessuna legge permette che, su volontà del paziente, gli venga tolta la vita. Si dirà che sono articoli del codice Rocco. Bene, cambiateli. Ma finché non accade, il diritto vigente è quello. Sento parlare di continuo del fatto che sarà risolutivo il testamento biologico.
Ma di per sé il testamento biologico non risolve proprio niente, esso dovrebbe essere elemento di
una legge che disciplini la materia per intero. Il Parlamento affronti, se vuole, la questione. Altrimenti le vie extralegali non sono ammissibili. Io almeno non ne vedo la praticabilità".
Così conclude il presidente emerito della Corte costituzionale: "Ogni giorno sentiamo invocare la certezza del diritto, il principio di legalità, ma al dunque, di fronte a certi casi tragici, vogliamo aggirare quella certezza. Le leggi scritte esistono: possiamo discutere da punti di vista sentimentali, ideali, di principio. Ma dal punto di vista del diritto positivo non ci sono equivoci possibili. Non posso far altro che ribadire la mia impotenza a trovare un fondamento giuridico positivo a favore di quelle decisioni giudiziarie".












































mercoledì 12 novembre 2008

NASSIRIYA: Il prezzo della Pace

Nella città irachena di Nassiriya, la base "Maestrale" del contingente italiano, impegnato nella missione di pace "Antica Babilonia" , veniva attaccata da un commando terroristico, che provocava la morte di 28 persone (19 italiani e 9 iracheni) ed il ferimento di 140!


Gli italiani caduti:
-carabinieri
Massimiliano Bruno
, maresciallo aiutante, Medaglia d'Oro di Benemerito della cultura e dell'arte
Giovanni Cavallaro, sottotenente
Giuseppe Coletta, brigadiere
Andrea Filippa, appuntato
Enzo Fregosi, sottotenente
Daniele Ghione, maresciallo capo
Horatio Majorana, appuntato
Ivan Ghitti, brigadiere
Domenico Intravaia, vice brigadiere
Filippo Merlino, sottotenente
Alfio Ragazzi, maresciallo aiutante, Medaglia d'Oro di Benemerito della cultura e dell'arte
Alfonso Trincone, sottotenente
-militari dell'esercito
Alessandro Carrisi, primo caporal maggiore
Emanuele Ferraro, caporal maggiore capo scelto
Massimo Ficuciello, capitano
Silvio Olla, maresciallo capo
Pietro Petrucci, caporal maggiore
-civili
Marco Beci, cooperatore internazionale
Stefano Rolla, regista
***A LORO L'ETERNA GRATITUDINE PER IL SACRIFICIO COMPIUTO***

mercoledì 5 novembre 2008

Il ruolo del Cristianesimo nella politica

di Antonio Colella
Nel corso della storia, avvenimenti di notevole caratura, che si sono succeduti, hanno avuto uno sviluppo alla base del quale ha giocato un ruolo fondamentale il Cristianesimo. E’ sicuramente riduttivo parlare di evento del tutto fortuito quando pensiamo al fatto che la democrazia sia nata e si sia sviluppata in Occi­dente, in Paesi di antica tradizione cristiana, dove oggi convi­vono un cristianesimo militante e un umanesimo laicizzato, che non può però del tutto nascondere le sue antiche origini reli­giose.
Il passaggio dalla società chiusa alla società aperta non si è avuto per via di semplice allargamento, ma solo grazie all’impulso della morale aperta e della religione aperta. Come afferma Bergson, questa apertura fu dovuta al Cristianesimo e alla sua idea della fraternità universale, che implica l’uguaglianza dei diritti e l’inviolabilità della persona. Nel quadro di tale passaggio si colloca il moto verso la democrazia, che “è l’essenza evangelica e ha per motore l’amore”. La livrea tipica di una società democratica è costituita dalla libertà, dall’eguaglianza e dalla fraternità, in contrapposizione a quella di una società non democratica o chiusa, le cui peculiarità sono l’autorità , la gerarchia e la stabilità.
Una svolta senza precedenti è la presa di posizione della Chiesa Cattolica in merito a determinate questioni comuni mediante l’esposizione della Dottrina Sociale Cristiana. Si tratta dell’enciclica papale Rerum Novarum promulgata da sua Santità Leone XIII il 15 maggio del 1891, nella quale auspica un’azione volta al raggiungimento di una maggiore giustizia sociale tramite l’applicazione dei principi della fede cristiana in una società in cui una solidarietà collettiva eliminasse i conflitti di classe. L'originalità dell'enciclica si ritrova nella mediazione di cui fece uso il Papa, il quale, ponendosi esattamente a metà strada fra le parti, esortò la classe operaia a non dar sfogo alla propria rabbia attraverso le idee di rivoluzione, di odio verso i più ricchi, e chiese ai padroni di mitigare gli atteggiamenti verso i dipendenti, abbandonando lo schiavismo cui erano sottoposti. Il Pontefice, inoltre, preferì che la questione sociale venisse risolta dall'azione combinata di Chiesa, Stato, impiegati e datori di lavoro. Tale spinta verso un rinnovamento, come vedremo, finì per assumere anche un significato politico, come tentativo per impegnare i cattolici in una battaglia civile per il consolidamento della partecipazione di ogni cittadino alla gestione democratica dei pubblici poteri.
Durante la Seconda Guerra Mondiale è ancora una volta fondamentale il ruolo ricoperto dal Cristianesimo nella lotta ai totalitarismi. Questo periodo rappresenta per Papa Pio XII il culmine di una vicenda storica di abbandono totale della religione, ma ,al tempo stesso, viene citata come gli inizi di un’aperta apologia del Cristianesimo e una condanna di tutta quella catena di errori storici, filosofici e religiosi, che aveva determinato la situazione presente. E’ emblematico il coraggio dimostrato dal pontefice nel siglare numerosi appelli per la pace e contro le azioni belliche dello Stato italiano e tedesco, ma soprattutto nell’emanare un decreto in cui afferma che ogni cattolico, che avesse appoggiato in qualsiasi modo o grado il comunismo, sarebbe incorso nella scomunica. Pertanto, la restaurazione di una società e di uno Stato cristiani s’imponeva come una necessità primaria e diventava per la Chiesa una sorta di programma di ricostruzione spirituale, morale e politica, che il laicato cattolico avrebbe dovuto realizzare. Nel disegno di Papa Pio XII tutte le realtà della vita umana, dalle più grandi alle più piccole, dallo Stato alla famiglia, dalla cultura allo sport, ai diversi ambiti professionali, potevano e dovevano essere ricondotte a una concezione cristiana. Nei suoi primi mesi di pontificato si preoccupò di istituire una Commissione cardinalizia, assistita da un vescovo con la duplice funzione di segretario generale della commissione e di assistente ecclesiastico generale dell’Azione Cattolica. Questa sua riforma fu conseguita con l’intento di proteggere il laicato cattolico ed ottenere una maggiore clericalizzazione e diocesanizzazione dell’Ac stessa. Tra i vari pareri dei vescovi in merito a questa innovazione, viene maggiormente preso in considerazione quello che rivendica un impegno nel sociale più ragguardevole. E’ in base a questa analisi che l’Ac darà al futuro partito di ispirazione cristiana parte dei suoi quadri dirigenti e soprattutto la grande massa degli iscritti della sua Associazione. Uno dei primi atti della Commissione fu quello di nominare Aldo Moro presidente nazionale della Federazione Universitari Cattolici Italiani (FUCI). L’obiettivo primario della sua presidenza è quello di preparare i cattolici ad una ripresa della vita democratica. La coscienza di creare dei veri cristiani che sentono la responsabilità della vita e il dovere di una espansione di carità rappresenta l’oggetto della FUCI. Quando Aldo Moro lascia la presidenza, a causa di impegni militari, gli succede Giulio Andreotti, già conosciuto come condirettore del loro periodico “Azione Fucina”. E’ proprio attraverso questo periodico che farà conoscere le sue idee, la principale delle quali è la necessità di contribuire a far convergere l’impegno degli universitari cattolici nel cooperare a porre le basi per un futuro ordinamento sociale ispirato ai principi del cristianesimo. I due personaggi accennati sono tra i maggiori esponenti nella storia della causa democristiana e sono riusciti a scalare la loro posizione politica proprio grazie ai loro archetipi diffusi con la militanza in associazioni di stampo cattolico come quelle sopra esposte. Giulio Andreotti, oggi senatore a vita, è poi diventato Presidente del Consiglio del partito della Democrazia Cristiana, mentre Aldo Moro, a lungo leader della Dc, viene oggi ricordato come un martire politico. Considerato dai comunisti il pericolo più grande, per via del progetto politico di cui era portatore e del suo modo di vedere la società democratica, viene rapito dalle Brigate Rosse e ucciso dopo 55 giorni di prigionia. Come riportato in un intervista alla figlia Agnese per il mensile di Azione Cattolica “Segno nel Mondo”, la sua idea di democrazia era quella di un paese che mettesse al centro le persone e che cercasse di farle esprimere al meglio, e di un luogo dove tutti potessero incontrarsi per intraprendere insieme una strada. Il suo giudizio per il terrorismo è di una violenza tramata nell’ombra, funzionale ad interrompere un processo di libertà. E’ molto fiducioso nei giovani, con i quali è quotidianamente a contatto, e non teme il futuro.
La storia ci insegna come, in molte delle vicende in cui i cristiani si sono impegnati nel sociale, essi non hanno avuto il timore di affrontare il futuro con tutte le forze derivanti dalla propria fede. Testimoniano quanto enunciato, oltre al caso Moro, tanti altri casi durante il periodo della Resistenza e del ritorno alla democrazia nel nostro paese, in seguito al secondo conflitto mondiale. E’, a tal proposito, singolare il contributo dei partigiani cattolici alla liberazione con la pratica della Resistenza carità, cioè un modo sconosciuto fin ad allora, ma soprattutto più umano di vivere questo drammatico momento storico, opponendosi a ogni ingiustizia e affermando la libertà come diritto di ogni uomo, riconoscendo la dignità di persona anche agli avversari. A fianco della componente cattolica si trovano in questo cammino altre componenti ideali del nostro paese, come quella legittimista, liberale, socialista e comunista. Proprio quest’ultima dà vita alla Resistenza rivoluzione, improntata su un progetto violento mirato alla costruzione di una società perfetta e che necessita, quindi, dell’abbattimento di chiunque si opponga alla sua ideologia. In quel periodo, la cultura comunista diventata dominante, finisce per affermare, attraverso la censura degli episodi scomodi e la mitizzazione dell’antifascismo, l’idea di una resistenza quasi esclusivamente rossa. Attraverso le parole, le testimonianze, le lettere, i documenti e foto dei protagonisti, alcuni dei quali mostreremo in questa tesi, è possibile rivivere la nascita della Resistenza cattolica a Reggio Emilia ad opera di grandi personaggi oggi dimenticati. Don Pasquino Borghi, animatore ardente dei primi nuclei partigiani, ospitò nella sua casa evasi di prigionia tedesca e, ucciso dai nazisti, divenne per i giovani motivo di maggior dedizione alla lotta partigiana. Non si può non rievocare nella mente dei cattolici il coraggio del comandante e medico Pasquale Marconi, il quale, padre di dieci figli, rischiò la vita per curare anche gli avversari feriti. Divenuto partigiano “per amore e non per odio”, afferma che quando è in gioco la libertà non si può stare in comodo rifugio. “Amico della verità sino al martirio” si confermò il seminarista quattordicenne Rolando Rivi, ucciso dai partigiani comunisti per non aver sacrificato il suo gusto di vivere la propria identità, di voler portare l’abito talare e di guidare altri giovani al fermento cristiano. Questi sono solo alcuni dei tanti protagonisti di quella “Resistenza Cancellata”, a cui presero parte numerosi cattolici. Ripercorrendo la strada dalle origini, un gruppo di partigiani forti della loro profonda fede cristiana e accomunati dal riconoscimento della dignità dell’uomo, anche se nemico, danno vita alla Resistenza nella città di Reggio Emilia, in quanto delusi dal fascismo e legati dalla comune amicizia con due sacerdoti. A partire dall’8 settembre 1943, la parrocchia di S. Pellegrino diventa luogo d’incontro clandestino per l’organizzazione di una iniziale forma di Resistenza sotto la guida di Don Angelo Cocconcelli e Don Giuseppe Iemmi. Questi incontri coinvolgeranno successivamente anche esponenti politici, sino a portare alla formazione del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN). Tutti i partiti democratici diedero il loro apporto alla formazione di questo comitato, tra i quali il Partito Socialista (PSIUP), la Democrazia Cristiana (DC), il Partito Comunista (PCI), il Partito Liberale (PLI), il Partito d’Azione (PDA) e la Democrazia del Lavoro (DL), con l’intento di conquistare la libertà in maniera definitiva contro ciò che rimane del fascismo. Il segretario della DC De Gasperi capì sin da subito che l’intento del PCI non era solo quello di liberare l’Italia, ma soprattutto di conquistare una dittatura di fatto attraverso le forme democratiche. Questo è quanto esprimeva in una delle sue lettere indirizzate a Don Sturzo. L’inclinarsi dei rapporti dei due partiti è successivamente confermato dalla denuncia fatta da un altro esponente politico della Democrazia Cristiana, Giuseppe Dossetti, il quale riconosceva il contributo del Partito Comunista specialmente in alcune province, ma la Resistenza non doveva essere il monopolio esclusivo di alcun partito e, invece, si è tentato di farne il monopolio del partito comunista.
E questo è solo l’inizio di una interminabile battaglia ideologica tra due partiti che hanno fondato la loro esistenza da una parte sul carattere dell’ateismo e della rivoluzione totale, rifacendosi al progetto politico dell’URSS, dall’altra sui principi cristiani da applicare nella società per il successo della repubblica democratica, ma questo lo vedremo meglio nel prossimo paragrafo.
Tutt’oggi, sono evidenti i tentativi della Chiesa di dare una sterzata alla politica dei governi contemporanei, che sia finalizzata al rispetto della vita e dei principi inderogabili ad essa connessi.
Tramite la “Nota Dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica”, il Concilio Vaticano II invita i fedeli laici a non abdicare alla partecipazione alla “politica”, ovvero alla molteplice e varia azione economica, sociale, legislativa, amministrativa e culturale, finalizzata all’ approvazione organica ed istituzionale del bene comune.
E’ proprio questo il punto che chiarisce qualsiasi dubbio sull’importanza del Cristianesimo nella politica. Il cristiano, infatti, è chiamato ad essere il primo a dare l’esempio di lealtà ed obbedienza verso la propria patria, ma tutto ciò fino a quando essa garantisce i principi inviolabili dell’uomo e ne promuove il rispetto degli stessi.
Purtroppo questo non è da considerarsi per scontato, e quando ciò avviene, risulta più che necessario che i cristiani scendano in campo per far sentire la propria voce nel richiamare i governanti al rispetto dei principi egualitari che appartengono alla democrazia. Quando non risulterà sufficiente una semplice esclamazione popolare a richiamare la deferenza di questi valori sarà doveroso per coloro che hanno una formazione cristiana che s’impegnino in prima persona nella gestione delle risorse a disposizione della comunità.
Una dimostrazione trasparente dell’impegno dei cristiani in politica ci è data dalla DC che, per un lungo periodo della storia della Repubblica Italiana, seppe come nessun altro partito difendere i valori cristiani e collocarli alla base della Costituzione.

martedì 4 novembre 2008

FIERI DI ESSERE ITALIANI


Il 4 novembre 1918, novanta anni orsono, si completava con la vittoria di Vittorio Veneto e la fine della Prima Guerra Mondiale, il ciclo delle campagne nazionali per l’Unità d’Italia. Un cammino partito dalla Prima Guerra d’Indipendenza, un percorso lungo, difficile, doloroso, portato a termine con il concorso della popolazione di tutte le regioni d’Italia.
La data celebra la fine vittoriosa di una guerra che ha determinato radicali mutamenti politici e sociali, e commemora la firma dell’armistizio siglato a Villa Giusti (Padova) con l’Impero austro-ungarico. Negli anni a seguire il ricordo di quegli eventi si è tenuto vivo dedicando la giornata alle Forze Armate e all’Unità Nazionale, ed in special modo a tutti coloro, soprattutto giovanissimi, che sono caduti nell’adempimento delle loro funzioni militari.
Le celebrazioni di quest’anno, nel quale ricorre il 90° anniversario, sono incentrate, ancor più che nel passato, nella ricerca di nuove occasioni d’incontro tra cittadini e Forze Armate, per rinsaldare un legame storico tra la società italiana e le donne e gli uomini ‘con le stellette’. Le celebrazioni si aprono il 4 novembre con l’alzabandiera e la deposizione della corona d’alloro all’Altare della Patria da parte del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il quale sarà presente nella stessa giornata al Sacrario Militare di Redipuglia (Gorizia), che custodisce le salme di 100.000 caduti della Grande Guerra, e a Vittorio Veneto (Treviso) per la celebrazione del 90° Anniversario della Vittoria. Il 5 novembre il Presidente Napolitano sarà alla Villa Giusti di Padova per celebrare il 90° Anniversario della firma dell’Armistizio.
Numerose sono le iniziative celebrative della ricorrenza coordinate dalle Prefetture e che si uniscono a quelle programmate a livello nazionale dal Ministero della Difesa: un spot della durata di 30 secondi trasmesso dai circuiti televisivi nazionali che sottolinea il rapporto di fiducia e affetto tra la popolazione civile e le Forze Armate; una serie di manifestazioni celebrative l’8 e il 9 novembre in 21 piazze d’Italia; la chiusura degli eventi con un concerto a Piazza del Popolo, a Roma, tenuto dal maestro Andrea Bocelli.

giovedì 30 ottobre 2008

Una voce fuori dal coro...brava Gelmini!



VOLANTINAGGIO!!!!
Stamattina, alle ore 8.30, ci siamo dati appuntamento davanti ai tre istituti scolastici di Lesina per informare la cittadinanza circa i contenuti della tanto discussa "legge Gelmini":DECRETO-LEGGE 1 sett. 2008 n.137/approvato, con modifica dalla Camera dei Deputati il 09-10-2008/convertito in legge dal Senato della Repubblica il 28-10-2008.
L'iniziativa, ideata con gli amici della DcA, è stata intrapresa per fare luce sugli aspetti del famigerato decreto Gelmini.
Riteniamo infatti, che al riguardo si sia fatta troppa confusione, anzi a pensarla male.... una strumentale disinformazione!
Per cui, al netto di tante chiacchere, vi proponiamo semplicemente la lettura integrale del testo normativo, che troverete a margine del post!
...Buona Lettura e Buon Ognissanti!
Leonardo & Antonio

sabato 25 ottobre 2008

Mentre gli studenti di sinistra si battono per la scuola pubblica...


...I figli di Nanni Moretti, Santoro, Veltroni & company vanno alle scuole private!
(Sottotitolo: Armiamoci e partite!)
*** * ***
Tanta preoccupazione per la scuola pubblica si può spiegare solo come un atto estremo di altruismo, visto che quando si tratta di decidere il destino dei figli un bel pezzo di centrosinistra si orienta direttamente verso le scuole private. E magari straniere.
Sorprende, insomma, tanta acrimonia nei confronti del ministro Gelmini, visto che non sono pochi gli esponenti della sinistra che di contatti diretti con la riforma della scuola, non ne avranno mai. Lo ha candidamente ammesso Michele Santoro nel corso dell’ultima puntata di AnnoZero, tutta dedicata alla scuola e alla nuova ondata di contestazioni studentesche.
Voleva dimostrare al leghista Roberto Cota quanto fosse sbagliata l’idea di «classi ponte» per insegnare la lingua straniera ai figli di immigrati. In sintesi: l’integrazione è facilissima anche quando un bambino si trova in un’aula dove tutti parlano una lingua che non sa. Per spiegarlo ha riportato, con comprensibile orgoglio paterno, l’esempio della figlia che frequenta una scuola straniera «e già parla un’altra lingua ». Applausi. Non si sa se dedicati alla bravura della bimba poliglotta o all’accostamento tra chi frequenta il costoso istituto francese «Chateaubriand», con l’obiettivo di diventare bilingue ed evitare le storiche carenze della scuola italiana, e i figli degli immigrati alle prese con la durissima battaglia per l’integrazione.
Ospite della trasmissione, il segretario Ds Walter Veltroni. Dei suoi investimenti immobiliari e formativi a New York a favore della figlia si sa già tutto. D’altro canto il Pci non c’è più. E con i comunisti è scomparso anche il divieto non scritto che vigeva per i dirigenti: mai iscrivere i figli alle private. Lo conferma il caso di Giovanna Melandri, la cui prole è stata affidata all’istituto privato «San Giuseppe». Si dice che l’esponente Pd abbia anche cercato di fare entrare la figlia in una scuola inglese. La stessa - la «Rome International School» - scelta dall’ex parlamentare di Rifondazione comunista Franco Russo, ansioso di dare un’educazione un po’ amerikana ai discendenti.
Niente pubbliche o comunali anche per i nipoti di Fausto Bertinotti, iscritti a suo tempo ad un prestigioso asilo romano dal metodo di insegnamento rivoluzionario. Ma a pagamento. E in effetti non è sempre la caccia alla lingua straniera la molla che fa scappare i genitori democratici dalle pubbliche. È il caso dell’ex ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni, contestato dai giovani del centrodestra per aver mandato il figlio ad un Liceo scientifico paritario di Viterbo, proprio negli anni in cui era in carica nel dicastero di viale Trastevere.
La seduzione del privato-straniero ha fatto breccia anche tra i più intransigenti girotondini. È il caso di Nanni Moretti, il cui figlio frequenta la scuola americana di Roma, la «Ambritt». Stessa scelta per il discendente di un vero e proprio outsider del Partito democratico: Mario Adinolfi. Proprio in questi giorni l’ex esponente del Ppi, per sua stessa ammissione allergico alle occupazioni, ha lodato la nuova ondata di studenti contestatori vedendoci l’embrione di un «conflittogiovanile di massa contro queste destre ». Chissà se anche dalle parti della scuola americana di Roma farà breccia l’atteso nuovo Sessantotto.
Scuola privata catanese anche per le figlie di Anna Finocchiaro, presidente dei senatori Pd. Al club del «no alle statali» si è iscritto anche Francesco Rutelli, Anche lui negli ultimi giorni si è espresso, non tanto a favore della protesta studentesca, quanto contro la linea «dura» di Berlusconi. Sicuramente nessuna delle sue due figlie dovrà subire interruzioni delle lezioni: una è iscritta al liceo privato «Kennedy» e l’altra alla prestigiosissima «San Giuseppe De Merode», scuola con vista su Piazza di Spagna.
Da quelle parti di okkupazioni, e cortei, se ne vedono pochi.
articolo di Antonio Signorini, tratto da Il Giornale del 25-10-2008

lunedì 13 ottobre 2008

Il caso Petrella: cronaca di un delitto impunito!



di Leonardo Mandunzio


*** * ***


Il FATTO:
Marina Petrella, detta “Primula rossa”, 54 anni, dal 1976 operante nella colonna romana delle Brigate Rosse, condannata all'ergastolo nel 1992, al termine del cosiddetto processo “Moro Ter”, per l’omicidio di un poliziotto ed il sequestro di un Magistrato, libera di espatriare, per gli effetti della decorrenza dei termini di custodia cautelare.
LA LATITANZA:
nel 1993 fugge in Francia, dove per l’effetto della “dottrina Mitterand”, varata nel 1985, il terrorista latitante non può essere estradato in Italia se si impegna a rinunciare alla lotta armata costruendosi una nuova vita. (Roba da far impallidire Montesquieu!).
Sulla scorta di questa dottrina, parecchi brigatisti nostrani ripararono a Parigi sfuggendo, così alla giustizia italiana.
Ritornando alla Petrella, dopo essersi rifugiata a Parigi, vive indisturbata fino al 2007, lavorando come assistente sociale, anno in cui la polizia francese stranamente si accorge di lei identificandola ad un normale posto di blocco stradale e finalmente arrestandola.
Tale circostanza fa scattare l’inevitabile procedura per l’estradizione richiesta dal Governo italiano.
Il 9 luglio 2007, il Presidente della Repubblica francese, Sarkozy, assicura pubblicamente che la "dottrina Mitterand" è superata, dichiarandosi pronto a firmare il decreto di estradizione della Petrella, subordinandolo però, alla concessione della grazia da parte delle Autorità italiane.
La Petrella, nel frattempo colta da un attacco di depressione, esce dal carcere e viene ricoverata in una casa di cura di Parigi dove afferma testuali parole:” In Italia non tornerò, potranno riavere soltanto il mio corpo”
Il Governo italiano ribadisce che la brigatista deve essere estradata in base al diritto comunitario, senza condizioni, in quanto la grazia la può concedere solo il Presidente della Repubblica italiana a seguito di richiesta da parte dell’imputata, assicurando, altresì, cure adeguate per la brigatista.
Senonchè l'Avv. Irene Terrel legale della Petrella, rispolvera una clausola del Trattato di Estradizione Italia-Francia del 1957 dove si prevede una opposizione al decreto di estradizione qualora ricorrano motivi umanitari (rischio di lasciarsi morire). Guarda caso da allora, la Petrella ha iniziato lo sciopero della fame e della sete.
Il resto dell'opera la completano le sorelle Carla e Valeria Bruni, mentori della causa della Petrella, convincendo il Presidente Sarkozy a disapplicare il decreto di estradizione.
IL DIRITTO COMUNITARIO VIOLATO:
La posizione della Francia in questa vicenda è del tutto arbitraria ed ingiustificabile sul piano del diritto comunitario per i seguenti punti:
1) In base al trattato di Schengen, Titolo III, lettera c ) i firmatari dell'Accordo si impegnano ad estradare tra loro le persone perseguite dalle autorità giudiziarie della parte richiedente;
2) La dottrina Mitterand, è una semplice prassi francese e non può derogare un trattato internazionale firmato dalla Francia stessa
3) la clausola umanitaria invocata dal legale della Petrella è pretestuosa poichè la sua assistita potrebbe continuare ad essere curata in Italia, dove è previsto il rinvio dell'esecuzione della pena per malattia particolarmente grave incompatibile con la detenzione carceraria (artt. 146-147 c.p.)
CONCLUSIONI:
Si attende che il Governo italiano faccia rispettare in seno alla Corte di Giustizia europea l'Accordo di Schengen, tramite ricorso per inadempimento.
Questo sia ben chiaro, non per spirito di rivalsa ma per garantire, seppur a 30 anni di distanza, un barlume di giustizia ai parenti di tutte quelle vittime che il terrorismo ha falciato negli anni’70 , che non meritano di essere dai carnefici pure irrisi.

venerdì 10 ottobre 2008

Cazzeggio...ergo sum!

di Leonardo Mandunzio
Navigando nel web mi sono imbattuto nel seguente annuncio:
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“Omissis…….Stiamo cercando nuovi opinionisti per un famoso programma delle reti *****. Cerchiamo ragazzi/e, signori/e di bella presenza, spigliati e che non abbiano timore delle telecamere….omissis”
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In principio fu Aldo Biscardi, poi venne Maria De Filippi con la trasmissione cult Amici: indice alzato, stile scuola materna, per prenotare l’intervento.
Da allora nel “piccolo schermo” è un continuo susseguirsi di programmi in cui si alternano mandrie di opinionisti chiamati a dire la loro su tutto lo scibile umano.
Il trend, volenti o nolenti è ormai questo…
Non c’è niente da fare, per riscontrare i favori del pubblico bisogna urlare o denigrare il malcapitato di turno infischiandosene di rovinargli la reputazione.
Tutto si è trasformato in un chiassoso talk-show, mutazione genetica che non ha risparmiato nemmeno la tradizionale partita di calcio.
Prima a commentare le gesta atletiche di Van Basten & C., c’era solo il buon Pizzul, adesso invece si alternano in tre per condire il match di riflessioni inutili e banali.
A tal riguardo chiederò al Ministro Gelmini, con una petizione popolare, di imporre il telecronista unico!
Ma i “cultori dell’ovvio” non si fermano solo al calcio……
Il problema diventa serio quando questi signori (veline, gieffini, visagisti e tronisti) sono chiamati a presenziare in trasmissioni televisive (Porta a Porta, Matrix, Italia sul 2…….) con una share elevato, in cui si discutono argomenti di rilevanza etico-sociale.
E vero che l’art. 21 della Costituzione recita che:”Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo di diffusione
Ma è altrettanto vero che, non basta l’ironia o la bella presenza per giustificare un “secondo me” anche quando la questione da dibattere è rilevante.
Quel "secondo me" dovrebbe essere sorretto da doti come la competenza e soprattutto la prudenza, qualità che si acquistano non sull’Isola dei Famosi ma dopo anni di studio, al fine di garantire il diritto del telespettatore ad essere informato sulla questione trattata nel modo più veritiero e corretto possibile!
Questo aspetto tragicomico della Tv italiana è stato colto dal mitico Gene Gnocchi (al secolo Eugenio Ghiozzi, classe 1955, ex avvocato, attore, scrittore), che attraverso il suo show (Artù in onda ogni giovedì verso le 23.15) si propone di formare quelli che definisce gli “esperti del cazzeggio”!
Ci riuscirà?
Vai Gene siamo con te!

sabato 4 ottobre 2008

Nella guerra della scuola i bambini come scudi umani

Articolo del 03-10-2008-tratto da L'Occidentale


Nella paradossale battaglia per difendere la scuola dal ministro dell'Istruzione la sinistra e la sua stampa di complemento la deve smettere di usare i bambini come scudi umani.
Ormai c'è n'è una al giorno. Ieri abbiamo saputo della maestra che ha convocato la manifestazione contro la Gelmini facendo scrivere una nota sul diario dei ragazzi, da far leggere e firmare ai genitori.
Sempre ieri a Bologna, genitori e insegnanti hanno tentato di occupare la scuola elementare don Marella, portandosi i bambini al seguito, col sacco a pelo e i materassini. Per poi gridare allo scandalo quando i carabinieri hanno fatto sgombrare la scuola spaventando i piccoli alunni.
Oggi dall'Unità apprendiamo che manovre del genere sono considerate un successo democratico. Così infatti l'intrepido titolo del quotidiano: "Una giornata di lotta a staffetta. Gli insegnanti, i precari, i genitori, ma anche tanti bambini".
Grande successo della manifestazione dunque: anche i bambini sono contro la riforma del ministro Gelmini, scendono in piazza, si accampano sulle scalinate del ministero e rilasciano interviste bellicose. Come quella che sempre l'Unità ha cura di riportare: "Marco biondino di 9 anni - scrive impavido il giornalista - la mette sul pratico: voglio andare a scuola anche il pomeriggio, a casa mi rompo". Più che contro la Gelmini sembra un'intervista contro i genitori, ma ovviamente la tesi del giornalista è che la Gelmini abbia abolito ora e per sempre il tempo pieno.
Insomma basta: se genitori e insegnanti hanno voglia di manifestare lo facciano pure ma lascino in pace figli e figlie, non li schierino in una guerra che non è la loro, non ne facciano oggetto di propaganda politica.
Non si difende un'idea di scuola alternativa a quella del governo, giusta o sbagliata che sia, mettendo i bambini sugli spalti della rivolta così da nascondersi dientro la retorica dell'innocenza, magari sperando di esporli come "vittime collaterali".
Se proprio volete la guerra contro Mariastella, armatevi e partite, ma lasciate i bambini a casa.

lunedì 22 settembre 2008

mercoledì 17 settembre 2008

DON GIUSSANI EREDE DI ROSMINI: la Famiglia e non lo Stato scelga l'istruzione



Articolo scritto da Alberto Mingardi, apparso su Il Riformista del 23-02-2005
Di Don Luigi Giussani rimarrà tanto, resterà la sua capacità di avvicinare al Mistero, di chiarire come pochissimi altri nel mondo d’oggi il doppio binario cristiano, ch’è il pessimismo sulla natura dell’uomo e l’ottimismo sul suo destino, il bisogno del vero declinato secondo il gusto del ragionevole, l’esperienza della fede. E quanti sono stati toccati, di persona, da questo sacerdote di Desio al punto di farne un’appartenenza, hanno di certo ben più da dire, ben più da piangere. Ma Don Gius non deve, ora, continuare a vivere solo nella loro biblioteca,o nel segreto tempio degli affetti. La sua lettura sarebbe ampiamente raccomandata a quelli che continuano a dirsi liberali, eppure non riescono ad affrancarsi dai miti stanchi che tramano contro il successo, la verosimiglianza, il senso stesso di quella tradizione di pensiero alle nostre latitudini.
Proprio a quelli che non riescono a comprendere quanto sia naturale, quanto sia “normale” essere cattolici e liberali, come Bastiat,come Tocqueville, come Rosmini, leggere Giussani farebbe bene.
Soprattutto su un tema, che è cartina di tornasole affidabile: l’educazione.
Il recinto della “scuola laica”è ancor oggi guardato a vista. Sottrarre l’educazione alle famiglie è stata raccomandata come l’unica assicurazione possibile contro la sopravvivenza del dispotismo sociale, di un intrigo di medioevali pregiudizi che schiacciano l’individuo proprio mentre cerca di diventare se stesso. I liberali post-unitari, del resto, erano impegnati a “fare gli italiani”,fabbricando da poche briciole un’identità, e dunque ansiosi di far conto su due agenzie di omogeneizzazione culturale: il servizio militare, e la scuola. Abortire il pluralismo dell’offerta educativa diventa una necessità, se lo Stato si definisce in antitesi all’unica istituzione che abbia radici robuste abbastanza da resistergli: la Chiesa.
L’imbastardimento del liberalismo per la velleità di un’egemonia era stato anticipato, sfidando il fuoco dei contemporanei, da Antonio Rosmini. «Vi hanno tra noi dei dottrinari», scriveva, «che riconoscono nei padri il diritto di fare istruire i loro figliuoli da persone di loro fiducia, scelte senza impedimento, ma poi aggiungono: «ciò non ostante per al presente non conviene lasciare questa libertà ai padri di famiglia, perché non ne sanno usare, hanno molti pregiudizi imbevuti nel tempo passato. Conviene dunque per ora privarli di quella libertà, fino che sieno formati alle nuove idee della giornata; allora poi glie la concederemo».Quelli che così ragionano sono falsi liberali,il che è quanto dire non liberali, sono teste inconseguenti, senza principi».Ammettere la libertà solo per i membri del proprio club ideologico, legare l’esercizio della propria responsabilità al riscatto di un esame,espropriare padri e madri del diritto di educare per consegnarlo al potere politico è un tradimento, un’abiura.
Ecco, Giussani,in molte occasioni ma soprattutto in un libro bellissimo, Il rischio educativo, ha definitivamente e vigorosamente sgomberato il campo da ogni equivoco. Lo Stato non può educare,perché l’educazione in senso proprio è immensamente di più dell’immagazzinare nozioni, da una parte, e del tentativo d’indottrinare dall’altra. Don Gius ha smascherato la bugia della scuola laica,aprendoci gli occhi sull’impossibilità di una educazione “neutrale”, che finga di tacere sulle questioni che fanno ribollire il sangue degli uomini. Insegnare è accettare il “rischio della libertà” e formarlo al confronto, perché «la scuola neutra pare che tragga queste sole conclusioni dallo scetticismo che tende a generare: il fanatismo o il bigottismo, fanatismi pro, bigottismi contro, oppure indifferenza e qualunquismo».
Viceversa, solo “una scuola ideologicamente qualificata” può «creare coscienze veramente aperte,e spiriti veramente liberi. E’ proprio perché educa all’affermazione di un criterio unico che essa può creare nel giovane un interesse intenso al paragone con le altre ideologie e una apertura sincerissima e simpatetica verso di esse». Non si cresce immergendosi in un brodino scipito, non c’è libertà educativa in un’orchestra composta sì di molti elementi,ma tutti costretti al silenzio.E’ invece solo sul mercato della conoscenza, un mercato aperto a chiunque abbia qualcosa da dire (due tipi di persone hanno la dignità dell’umano, racconta Giussani a Renato Farina: l’anarchico e il religioso, chi sa accettare l’esistente e chi sa ribellarsi, non quelli che si mordono la lingua), che si può trovare il pluralismo autentico. E non crediate la tolleranza sia figlia del silenzio: è anzi il prodotto di quella “simpatia” per la fede altrui che solo chi ha consapevolezza di quel che crede può provare.
C’è una lezione di libertà straordinaria in quelle pagine,che andrebbe urlata addosso ai talebani dello scetticismo, ai silenziatori delle coscienze, agli spiriti colti e smaliziati per i quali il rispetto delle ragioni altrui è figlio di un cinismo divertito e compreso,e non dell’identificazione nella differenza. Guarda caso, c’è una parola ch’era cara a don Gius. “Creatività”, e dice il meglio dell’uomo, calpestato e offeso dall’interventismo selvaggio: «lo statalismo è sempre una situazione pietosa, nel senso che fa pietà: senza creatività, senza poesia, senza canto (adeguati, dico)». «Una società è fatta dall’imporsi di questa creatività di cui la libertà dell’uomo è capace, dall’imporsi di questa creatività anche al predominio dello Stato.Più società:più individui,più creazione dal basso».

martedì 2 settembre 2008

Il compito dei cattolici nella società di oggi


Talvolta abbiamo idee confuse e personali su come debba comportarsi un credente cristiano nella società di oggi.
Con questo intervento, da parte di un eminente esponente della Gerarchia ecclesiastica, si dissipa ogni dubbio.
Ve lo proponiamo integralmente. Buona lettura.

Intervento dell'arcivescovo Rino Fisichella al Meeting di Rimini
Rimini, 30. "Noi non stiamo nelle sacrestie, siamo nel mondo. Noi siamo nel mondo, nessuno potrà chiuderci la bocca. Se non parliamo noi non ci sarà nessuno che avrà parole di speranza per questo uomo sperduto di oggi": con queste parole sul ruolo dei cattolici nella società attuale, monsignor Rino Fisichella, rettore dell'Università Lateranense e presidente della Pontificia Accademia per la Vita, ha suscitato calorosi applausi nel corso del suo intervento da parte dei presenti a Rimini, venerdì 29 alla penultima giornata dell'annuale Meeting di Comunione e liberazione.
Monsignor Fisichella, riferendosi ai sanguinosi attacchi ai cattolici nell'Orissa in India, ha dichiarato che "come nei primi tempi della Chiesa, i martiri sono ancora oggi. Quattordici persone, se non trenta, sono state uccise solo perchè portano il santo nome cristiano". L'arcivescovo ha quindi parlato del rapporto tra scienza e fede: "La Chiesa - ha dichiarato - non potrà mai essere nemica della scienza e non lo è mai stata in passato", è nemica piuttosto delle pseudo-scienze e della pretesa della scienza di dire l'ultima parola sull'uomo.
Monsignor Fisichella, riferendosi al conflitto che può sorgere tra scienza e fede, ha voluto ribadire che "da noi non ci si può aspettare una parola di morte; da noi ci si può aspettare soltanto una parola di vita. Se noi per un attimo dimenticassimo questo l'uomo di oggi sarebbe disperato, cioè¨ senza speranza. Noi non possiamo permettercelo". "Quando si toccano i principi fondamentali del vivere - ha continuato monsignor Fisichella - del dare senso alla vita, quando si toccano i fondamenti dell'esistenza, dobbiamo dare all'uomo di oggi delle certezze, non dei dubbi, perchè si tratta di vivere fondandosi sulla roccia che è Cristo".
Riferendosi al ruolo della Chiesa cattolica nella società di oggi, monsignor Fisichella ha voluto sottolineare che un ruolo pubblico per la Chiesa non è "ingerenza" ma capacità di dire parole di vita e speranza.
"Ci sono una serie di situazioni - ha sottolineato il rettore - che sono state riferite al cosiddetto "testamento biologico" ma possono esserci altre espressioni che fanno emergere più il senso della vita anzichè la morte".
Nei riguardi del rapporto tra Chiesa e Stato circa le questioni etiche e biologiche, monsignor Fisichella ha sottolineato che "nel momento in cui nella società si pongono problemi nuovi ed emergono situazioni prima sconosciute perchè la scienza fa passi da gigante, è evidente che lo Stato sia chiamato ad assumersi la responsabilità di dare una risposta".
Tuttavia, per monsignor Fisichella, "la Chiesa conosce l'uomo, è esperta in umanità ; per questo sa che cosa c'è nel cuore dell'uomo, sa quali sono le domande che si agitano nell'essere umano. Sono le domande di sempre.
Da dove vengo? Dove vado? Perchè il dolore? Perchè la sofferenza? Perchè la malattia?
Queste sono le domande dell'uomo. Dell'uomo antico, dell'uomo del medioevo, dell'uomo moderno, dell'uomo post-moderno, quando arriverà ".
Riferendosi ai recenti, sanguinosi episodi di persecuzione contro i cristiani nello Stato indiano dell'Orissa, monsignor Fisichella ha lanciato un appello in difesa dei "nostri fratelli che vivono in una regione lontana dalla nostra, ma ci appartengono. Nel momento in cui si infierisce su di loro, si infierisce su di noi, perchè noi siamo solo un corpo, questa è la realtà della Chiesa".
"La Chiesa - ha poi proseguito - nel corso dei suoi duemila anni è ancora oggi protagonista nella vita delle persone. Perchè, a differenza di tante forze che sono presenti nel mondo la Chiesa vive di un incontro interpersonale con ciascuno.
Se non fossimo credibili, allora il mondo non ci insulterebbe, perchè penserebbe che siamo dei suoi.
Proprio perchè siamo credibili, proprio perchè siamo capaci di dare dei martiri, proprio perchè siamo capaci ancora oggi, ininterrottamente, di riportare quella Parola di vita, proprio per questo il mondo non ci vuole. Anzi, ci vuole come dei numeri.
A tutto questo diciamo no, diciamo che siamo persone, e persona, per sua stessa identità semantica significa relazione. Questo termine è stato trasformato nel corso dei secoli cristiani alla luce del concetto di Dio che è Trinità ;
siccome i cristiani dovevano parlare di Dio come persona e come una persona che ama e che è in relazione ed è Padre e Figlio e Spirito, allora questa relazionalità viene data a ciascuno di noi". Monsignor Fisichella ha quindi ricordato che "la Chiesa nella sua realtà è nel mondo ma non è del mondo, perchè Gesù ci ha detto questo;
ma noi partecipiamo completamente di quello che è la realtà del mondo di oggi.
Noi siamo come un fermento che alimenta la pasta, ecco perchè dobbiamo essere presenti, ecco perchè nessuno potrà rinchiuderci".
Monsignor Fisichella nel concludere il suo intervento al Meeting di Rimini 2008 ha ricordato le parole di John Henry Newman in una delle pagine della Apologia pro vita sua quando scrive: "Io non permetterò mai che quell'evento, che ha dato senso alla mia vita, possa essere considerato come un reperto archeologico; è vero, è vissuto più di venti secoli fa ma la sua parola è una parola per oggi, la sua persona vale per oggi, il suo messaggio di amore vale per oggi".

mercoledì 27 agosto 2008

Noi Cristiani, perseguitati d'Occidente!


di Leonardo Mandunzio

Deridete pure le nostre credenze: non potete però negare ch'esse sono utili. In ogni caso non giustificano la vostra persecuzione”.
Così si esprimeva Quinto Settimio Fiorente Tertulliano nel capo 49 dell’Apologetico, opera scritta intorno al 197 D.C. per difendere i Cristiani dalla persecuzione dei pagani.
Purtroppo, questa citazione non è una semplice rivisitazione del passato, ma costituisce, seppur con sfumature storiche diverse, ancora un dato di scottante attualità.
Se in Oriente si continua ad assistere all’eliminazione fisica dei Cristiani, in Occidente è in atto un vero e proprio “genocidio culturale”, un tentativo silenzioso di insinuare nelle menti dei fedeli cattolici, un “Cristianesimo intimista”, comodo, sganciato da qualsiasi forma di Autorità ecclesiastica e di obbedienza al Magistero della Chiesa di Roma.
Insomma, una fede da “comodino”, da vivere esclusivamente nel tepore della propria coscienza onde evitare di turbare l’affermazione del nascente homo laicus, vero e proprio inganno di questo Terzo Millennio.
Dal canto suo l’Unione Europea, gigante senza cervello, si è fatta promotrice di questo scellerato progetto, rifiutandosi di riconoscere, nel preambolo della sua Carta costituzionale le radici giudaico-cristiane, soppiantandole così di fatto con una zizzania neutra e laicista tollerata da tutti gli Stati membri: la “religione dei diritti umani ad libitum”: dottrina sganciata dal diritto naturale (inteso come quell’insieme di norme che il Creatore ha inscritto nel cuore di ogni uomo per orientarlo nella vita terrena) e sempre più in balìa degli impulsi umani;
Ormai il trend in Europa è questo e chi va all’assalto di questo mulino a vento, finisce per fare la fine di don Chisciotte dapprima deriso e poi discriminato...
… Come non ricordare il caso dell’ On. Rocco Buttiglione candidato alla carica di Commissario europeo nel 2005, defenestrato, poiché “cattolico tout court”, dal veto di Daniel Cohn Bendit, deputato dei Verdi (Sinistra Europea) e leader del Maggio francese del 1968?
Se questa non è discriminazione…..
Sebbene in Occidente non si muoia corporalmente in ragione di Cristo, si viene, però violentemente, spogliati giorno dopo della sua Presenza nel reale (Lavoro-Scuola-Istituzioni).
E’ una forma diversa di assassinio, non è una morte cruenta inflitta al corpo, come ai nostri fratelli in India, ma è una morte cerebrale lenta e inesorabile: il corpo vive mentre l’encefalogramma è piatto!
Non ci rassegniamo, quindi all’eutanasia della Ragione, ad un “Cristianesimo intimista” ma viviamo questo Tempo con la consapevolezza che i luoghi pubblici dove trascorriamo le ore delle nostre giornate, sono l’arena dove siamo stati calati per rendere testimonianza alla Verità, in modo da poter dire, al termine dei nostri giorni anche noi come S. Paolo: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la Fede” (2Tm 4, 6-8)

mercoledì 20 agosto 2008

La storia insabbiata:I Partigiani "Bianchi" cattolici nella Resistenza


Dedicato a tutti coloro che continuano a credere nel mito dei partigiani comunisti integerrimi che avrebbero salvato l'Italia....

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IL SESSANTESIMO DELLA LIBERAZIONE I partigiani "bianchi" cattolici nella Resistenza.

Quasi ignorati, essi hanno avuto un ruolo importante nella liberazione dal nazifascismo. Vittime nella strage di Porzus, creatori della Repubblica dell'Ossola.

(di Antonio Spinosa)

*** * ***
La storiografia ufficiale, nel corso di questi anni, ha sempre dato un'immagine univoca della Resistenza, quasi mitizzata, ma non ha mai chiarito il ruolo che in essa svolsero le varie componenti politico-partigiane e, fra esse, anche quelle cattoliche.

I drammi della guerra accrebbero nella popolazione la fede religiosa, specialmente del mondo contadino che costituiva il fulcro della forza lavoro dell'Italia nella prima metà del XX secolo.

Allora si comprende il ruolo che, nel corso del conflitto, assunse la figura dei parroci i quali divennero una guida non soltanto spirituale, ma anche civile e politica.

Don Primo Mazzolari ricordava come centinaia di giovani si rivolgevano ai loro padri spirituali per orientarsi sulla difficile questione di aderire o no alla chiamata alle armi della Repubblica di Salò. Don Mazzolari nella saggia Risposta a un aviatore scriveva nei riguardi della guerra e dell'obbedienza: Come si può riconoscere se una guerra è giusta o ingiusta? A chi spetta il compito di procedere a tale decisione? Tale ruolo è affidato all'autorità costituita, ma se questa, invece di rispondere al suo scopo, ossia il conseguimento del bene comune, si trova a operare contro di esso, l'individuo acquista il diritto alla rivolta come verso chi usurpa un diritto. E quindi così approfondiva il suo concetto: Ove comincia l'errore, o l'iniquità, cessa, con la santità del dovere, la sua obbligatorietà e incomincia un altro dovere: disobbedire all'uomo per rimanere fedeli a Dio.

Questi stessi ideali si riconoscono anche nelle parole di un giovane capo partigiano lombardo, Giancarlo Passavalli Puecher, che fu passato per le armi il 22 dicembre del 1943: L'amavo troppo la mia Patria; non la tradite, e voi tutti giovani d'Italia seguite la mia via, e avrete il compenso della vostra lotta ardua nel ricostruire la nuova unità nazionale. Si verificava una situazione un po' critica. Difatti - mentre la gerarchia ecclesiastica doveva restare in una posizione di distacco, e questo nel timore che la stessa Sede di Pietro potesse finire sotto le bombe naziste e il Papa venisse deportato nella fatale Germania - il clero di provincia aveva, invece, mano libera nell'esercitare in modo diretto o indiretto una positiva azione a favore dei gruppi partigiani, soprattutto quelli di ispirazione religiosa o liberale.
Il clero apre le porte delle canoniche.

Le parrocchie divennero un rifugio per esuli e perseguitati, centri di appoggio della Resistenza in cui si tenevano le riunioni clandestine delle varie espressioni del Comitato di liberazione nazionale, e persino depositi di armi.

Scriveva don Andrea Ghetti il quale, insieme a don Aurelio Giussani, era un promotore del gruppo partigiano Oscar: La Resistenza fu per noi un moto dello spirito, un gesto di solidarietà, di ricerca di giustizia nella libertà. Quasi per istinto, i preti, le suore, il laicato cattolico si prodigarono nei soccorsi. Si assistevano gli sbandati, si accompagnavano in Svizzera gli ebrei e i militari alleati che, fatti prigionieri, erano evasi. Si prestava asilo ai ricercati, si riforniva di viveri chi era senza la tessera, si fabbricavano documenti falsi e si diffondeva capillarmente la stampa clandestina antifascista d'ispirazione cattolica. Giorgio Bocca annota nel suo saggio sull'Italia partigiana: Senza l'aiuto del clero tre quarti della Pianura padana - il Piemonte, la Lombardia, il Veneto - sarebbero rimasti chiusi e difficilmente accessibili alla ribellione antifascista. E così prosegue: La maggioranza è amica, quasi ogni parrocchia è un possibile rifugio, un sicuro recapito.

Sulla base di una stima del leader democristiano Enrico Mattei, redatta in occasione del primo congresso della Dc, le forze messe in campo dai cattolici durante la Resistenza ammontarono a 65 mila uomini suddivisi in 180 brigate.

La più attiva di esse era la Brigata del Popolo che agiva prevalentemente in ambito urbano e che svolgeva un importante ruolo nelle azioni logistiche e di sabotaggio a danno dei tedeschi.

Una forte presenza di partigiani bianchi si ebbe anche nel parmense dove su ventidue brigate, più della metà erano costituite da cattolici.

Altre formazioni di ispirazione cristiano-liberale erano le Fiamme Verdi, organizzate dal tenente degli alpini Gastone Fianchetti e operanti in Lombardia, Emilia, Veneto e Piemonte. Questa struttura poteva contare su un giornale clandestino, Il Ribelle, che ispirò anche l'omonima e famosa preghiera dovuta alla penna dei partigiani Teresio Olivelli e Carlo Bianchi.
Strage di Porzus e Repubblica Ossolana

Sarebbe impresa ardua ricordare le numerose esperienze della Resistenza cattolica, e pertanto ne citiamo soltanto un paio fra le più significative: quella della divisione Osoppo, che operava nell'udinese, e quella della Repubblica dell'Ossola.

Nel Friuli Venezia Giulia fin dal primo momento la convivenza fra partigiani cattolici (bianchi) e partigiani comunisti (rossi) si rivelò assai ardua, e ciò perché i due gruppi non condividevano né gli stessi ideali né perseguivano i medesimi obiettivi. La situazione si deteriorò ulteriormente quando le divisioni della brigata rossa Garibaldi, per ordine di Togliatti, divennero collaborazioniste delle truppe titine che avevano invaso il territorio italiano per annettere alla Iugoslavia le città dalmato-istriane.

Uno degli episodi più drammatici della conflittualità che intercorreva fra comunisti e cattolici si ebbe fra i boschi di Porzus, nelle vicinanze di Udine.

Operava in quest'area una divisione della brigata Osoppo, comandata dal giovane capitano degli alpini Francesco De Gregori - zio dell'omonimo cantautore romano - e dal commissario politico Gastone Valente. Del gruppo faceva parte anche il ventenne Guido Pasolini, fratello dello scrittore Pier Paolo.

Mediante uno stratagemma, il partigiano comunista Mario Toffanin - da tempo legato alle forze iugoslave di Tito - e altri militanti della formazione garibaldina riuscirono a ingannare gli onesti partigiani della Osoppo e, dopo averli lungamente seviziati, li uccisero a tradimento con raffiche di mitra. Ventuno furono le vittime della carneficina.

Nella Val d'Ossola, dopo la liberazione dalle truppe nazi-fasciste, si impose la volontà di un combattivo sacerdote, don Luigi Zoppetti, il quale diede vita a una piccola repubblica indipendente da cui si sarebbe dovuto irradiare in tutta la penisola un moto rivoluzionario e democratico.

Accanto a don Zoppetti operò anche l'arciprete don Luigi Pellanda che, grazie a un'efficace mediazione, riuscì a evitare un cruento scontro armato fra i tedeschi che occupavano Domodossola e le truppe partigiane.

La Repubblica dell'Ossola ebbe vita assai breve - dal 10 settembre al 23 ottobre del 1944 - ma, per la sua vicinanza alla Svizzera, ebbe una grande notorietà anche all'estero. Il suo territorio comprendeva trentacinque comuni con oltre ottantamila abitanti, e il capoluogo era Domodossola. A presiedere la giunta governativa fu chiamato il chirurgo Ettore Tibaldi che nel dopoguerra ricoprirà l'incarico di vicepresidente del Senato. Fra i ministri nominati dal Tibaldi merita di essere ricordata Gisella Floreanini, la prima donna italiana a ricoprire un incarico di governo. Si accreditò persino un ambasciatore a Berna, avendo la Comunità elvetica riconosciuto ufficialmente il nuovo Stato autonomo dell'Ossola.
Triste fine di un sogno, infatti l'esperienza indipendentista finiva, tuttavia, mestamente.

Da un lato, la scarsità di mezzi impedì all'apparato amministrativo di funzionare nel migliore dei modi, per cui si ebbero continui contrasti nella stessa compagine statale; dall'altro lato, le forze dell'Asse, ancora molto agguerrite, assediarono la Valle dell'Ossola per mano del terribile prefetto di Novara Enrico Vezzalini.

L'attacco venne sferrato all'alba del 10 ottobre del 1944, e già alle ore 17,00 una colonna armata fascista guidata da Vezzalini in persona entrava vincitrice in Domodossola. Stando alle critiche lanciate dai partigiani comunisti, che erano stati esclusi dalla gestione della Repubblica ossolana, la colpa della di-sfatta era da imputare alle negligenze di don Zoppetti e di Tibaldi, rifugiatisi in Svizzera per non cadere vittime delle rappresaglie fasciste. Eppure, fra le repubbliche partigiane quella dell'Ossola resta una delle esperienze più stupefacenti e fruttuose in quanto a capacità organizzativa e pacifica dei partigiani bianchi.La Repubblica dell'Ossola cadeva pochi mesi prima della fine del secondo conflitto mondiale. Nell'aprile del 1945 morivano Hitler e Mussolini. Il primo si toglieva la vita in uno dei tuguri del suo bunker berlinese insieme alla fedele compagna Eva Braun, il secondo veniva fucilato con l'amata Claretta Petacci davanti al cancello arrugginito di una villa di Giulino di Mezzegra nelle vicinanze del lago di Como. L'era dei folli tiranni che avevano sognato di dominare l'Europa (e oltre) si spegneva, ma come un furioso incendio essa lasciava dietro di sé morte e distruzione.

Spettava alle giovani generazioni l'arduo compito di ricostruire ciò che era stato spazzato via dalle armi e dall'odio, e restituire nuova speranza a un Paese avvilito e umiliato. Però i semi gettati dalla Resistenza avrebbero favorito la nascita di una rinnovata nazione italiana, repubblicana e democratica.

Il ruolo svolto dai cattolici durante la Resistenza merita di essere sempre più studiato e approfondito per superare giudizi che spesso soggiacciono a una distorta e faziosa lettura storiografica.

Particolare attenzione va rivolta all'azione politica di De Gasperi il quale, in forza della sua capacità di mediare fra diverse anime, riuscì a creare un diffuso consenso fra le parti politiche, che nella Costituente collaborarono insieme per scrivere la Carta Costituzionale della nuova Italia.

A differenza di ciò che era avvenuto al termine del Risorgimento, quando i cattolici si erano sdegnosamente astenuti dal partecipare alla vita politica, durante e dopo la Resistenza la fermezza del clero contribuì a trasformare il moto antifascista in una rivolta popolare il cui cuore pulsante era costituito dalle masse contadine da sempre escluse dalla guida del Paese.

mercoledì 6 agosto 2008

Perchè i cattolici non devono guardare a sinistra!


Riportiamo di seguito, un saggio del prof. Rocco Buttiglione dal titolo:
Il ruolo dei cattolici-liberali nel quadro politico attuale (Quaderni di Teoria n.5/2007)


E’ diffusa fra i cattolici la convinzione che una politica cristiana debba necessariamente guardare a sinistra perché non possiamo non farci carico del problema dei poveri. La sinistra è dalla parte dei poveri e dunque i cristiani in politica devono stare a sinistra o quanto meno guardare a sinistra.
E ‘ giusta ed accettabile questa convinzione?
Intanto è certamente giusto dire che il cristiano non può non stare dalla parte dei poveri. Il problema è piuttosto se la sinistra stia davvero dalla parte dei poveri e che cosa significa in verità stare dalla parte dei poveri.
Cominciamo con questa seconda domanda: che cosa significa davvero "stare dalla parte dei poveri". La risposta è in un certo senso intuitiva: vogliamo che ogni uomo abbia il necessario per vivere, che nessuno debba patire la fame o il freddo, che ciascuno abbia la possibilità di avere accesso alla cultura, cioè la possibilità di uno sviluppo integrale della propria personalità umana. Ci illumina a questo proposito una enciclica di Giovanni Paolo II, la Dives in Misericordia. Apparentemente non è una enciclica dedicata a dei temi sociali ma in realtà afferma un principio che tocca profondamente la nostra visione dell’ordine sociale. Potremo esprimere il suo messaggio in questo modo: c’ è qualcosa che è dovuto all’uomo per il fatto che è un uomo, a causa della sua eminente dignità. Ciò naturalmente non vuol dire che ogni uomo non debba lavorare per avere il necessario per vivere o che qualcuno abbia un diritto di vivere ozioso a spese della comunità. Nella vita vale il principio della giustizia commutativa: se vuoi qualcosa devi pagare in qualche modo ( fondamentalmente attraverso il lavoro) il suo prezzo. Ma che faremo di colui che non riesce a pagare? Come ci comporteremo con colui che ha bisogno di tutto e non ha nulla da dare in cambio del necessario per la sua vita? Possiamo limitarci a dire : " sei un fannullone ed un fallito e ti lasciamo a morire al margine della strada?" Non possiamo a causa del valore trascendente di ogni persona umana. Dio stesso verrebbe a chiederci conto di quel suo figlio che noi abbiamo abbandonato. E cosa è dovuto a chi nel gioco del mercato e della concorrenza non ce l’ha fatta ed ha fatto fallimento? Non solo il necessario per non morire ma una seconda occasione, la possibilità di reinserirsi come membro utile ed attivo della società.
In un’altra sua enciclica, la Laborem Exercens, Giovanni Paolo II parla del diritto dell’uomo al lavoro. Essere inserito nella società, avere accesso ai beni della terra, significa avere la possibilità di lavorare. L’uomo ha il dovere di lavorare (salvo solo il caso in cui le sue condizioni di salute non glielo consentano) ma l’uomo ha anche e proprio per questo il diritto di lavorare.
In un’altra enciclica ancora, la Sollicitudio Rei Socialis, il Papa ci parla della proprietà dei mezzi di produzione. Dio ha creato la terra e la ha consegnata agli uomini perché attraverso il lavoro abbiano cura della sua bellezza e traggano da essa il proprio sostentamento. Dio ha dato tutta la terra a tutti gli uomini. Questo non vuol dire che la terra debba essere divisa in parti eguali fra tutti gli uomini. La ricchezza della nostra economia deriva dalla divisione del lavoro, dalle opere dell’ingegno umano assai più che dalla proprietà della terra. Sarebbe ingenuo pensare che tutta la ricchezza derivi dalla terra. Ancora più che dalla terra la ricchezza deriva dall’ingegno dell’uomo e dalle sue opere. Tuttavia rimane vero che la terra è un presupposto inevitabile di qualunque produzione. Dire che la terra è affidata a tutti gli uomini significa in realtà due cose: che nessuno può distruggere le risorse della terra ignorando i diritti delle future generazioni o anche quello dei contemporanei a vivere in un ambiente salubre e pulito e che nessuno deve essere tagliato fuori dalla grande famiglia del lavoro umano, deve rimanere privo della possibilità di guadagnarsi da vivere attraverso il lavoro.
E’ facile dimostrare che questi principi della dottrina sociale cristiana sono interamente recepiti anche nella Costituzione della Repubblica Italiana.
In cosa si differenziano questi principi da quelli della sinistra? Non è facile dirlo perché oggi esiste nella sinistra una grande confusione e non è facile trovare nella sinistra le posizioni più diverse, comprese quelle che abbiamo indicato come proprie della dottrina sociale cristiana.
Per fare un po’ di chiarezza partiamo da Norberto Bobbio che ha indicato nella eguaglianza il punto di orientamento fondamentale della sinistra. Eguaglianza può significare la stessa cosa della solidarietà verso il povero e lo sforzo di aiutarlo a mettere in valore tutte le sue capacità uscendo dallo stato di povertà, ma di per sé eguaglianza può anche significare la invidia sociale che vuole livellare le condizioni del ricco a quelle del povero. Per una parte della sinistra la voglia di spossessare i ricchi è stata più forte di quella di migliorare le condizioni dei poveri e si è preferita una società di eguali nella povertà ad una società di diffuso benessere in cui alcuni fossero più ricchi di altri. Il fine della politica economica deve essere aumentare il benessere generale o aumentare l’eguaglianza?
Certo, il concetto di benessere generale può essere ingannevole. E’ possibile che la ricchezza complessiva di una società aumenti ma in essa i poveri diventino più poveri ed i ricchi diventino più ricchi. Non potremmo accettare un società così. Ma cosa è male: semplicemente l’aumento della disuguaglianza ovvero il peggioramento delle condizioni di vita dei più poveri? Uno studioso americano che ha avuto molta fortuna anche ( anzi soprattutto) a sinistra, John Rawls, ha scritto che è eticamente difendibile il fatto che alcuni diventino più ricchi a condizione che nel processo nessuno diventi più povero e anzi alcuni diventino meno poveri.
La questione della eguaglianza è strettamente connessa con quella del controllo dello stato sull’economia. Il modo migliore di accrescere la ricchezza, infatti, è in genere quello di lasciare libertà alla iniziativa economica dei cittadini. Ciascuno di sforzerà di migliorare le proprie condizioni, alcuni vi riusciranno meglio di altri, ma nel loro sforzo essi trascineranno dietro anche il resto della società. La ragione di questo sta nel fatto che la principale risorsa economica, più ancora che la terra, sta nella voglia di lavorare, nella creatività e nella inventiva degli uomini. Nel linguaggio della economia moderna questa si chiama imprenditorialità. E’ la capacità di inventare combinazioni produttive efficaci e di rischiare per realizzarle. Se il fine della politica economica è l’eguaglianza bisognerà tenere strettamente sotto controllo l’iniziativa privata, se il fine è il miglioramento delle condizioni di vita di tutti (anche se in modo diseguale) allora l’iniziativa privata andrà incoraggiata. Certo, sarà necessario richiamare gli imprenditori alla loro responsabilità sociale, perché alla fine la crescita torni davvero a beneficio di tutti, ma la loro attività dovrà essere valutata in linea di principio come positiva e dovrà essere sostenuta e stimolata dai poteri pubblici.
Abbiamo così individuato due distinzioni di principio fra la posizione della sinistra e la nostra: Noi siamo per la solidarietà , la sinistra è tentata dalla invidia sociale. La sinistra è statalista ( per realizzare l’eguaglianza) noi siamo per la libertà di iniziativa e diamo in economia allo stato un ruolo sussidiario.
L’eguaglianza come la sinistra è tentata di interpretarla, sta in contraddizione con l’idea di merito. Gli uomini sono tutti eguali fra loro in dignità (è ciò che abbiamo spiegato con l’aiuto della enciclica Dives in Misericordia). Ciascuno ha però delle qualità diverse tanto da essere unico ed irripetibile. Queste qualità diverse interagiscono con l’ambiente e da esse dipende il risultato dello sforzo dell’uomo sul lavoro. Alcuni avranno un successo maggiore, altri ne avranno uno minore. A volte il successo dipenderà da qualità morali, come per esempio la capacità di sacrificio o la capacità di lavorare con altri creando una squadra efficiente. A volte la differenza dipenderà da qualità moralmente neutre ( il dono di una particolare brillantezza intellettuale). A volte si tratterà anche dell’imponderabile e della fortuna ( essere il primo ad avere un’idea economicamente produttiva) . Nella maggior parte dei casi si tratterà di una mescolanza di tutte queste cose. Mentre l’invidia sociale e la concezione di eguaglianza che ad essa si apparenta vede con straordinario sospetto queste differenze per una visione realista della persona umana esse sono l’occasione perché si manifesti la solidarietà fra le persone. Proprio perché alcuni hanno più successo di altri noi siamo continuamente rimandati a costruire una rete di solidarietà in cui chi è più forte aiuta chi è più debole. Senza dimenticare che anche in questo vige un certo principio di reciprocità. Chi oggi è più forte potrebbe domani avere lui bisogno di aiuto e chi oggi è più debole potrebbe essere domani quello che gode del maggior successo. La solidarietà presuppone la differenza del merito e del successo e carica i più forti di maggiore responsabilità sociale. Si può naturalmente anche indagare i motivi del maggior successo di alcuni rispetto ad altri. Abbiamo già accennato al fatto che questi motivi non sempre dipendono dal merito. Molto è importante la famiglia. Dalla famiglia ereditiamo dei beni materiali, un patrimonio genetico ed una educazione. Sul patrimonio genetico il legislatore non può intervenire. Sui beni materiali interviene con le tasse di successione (tenendo conto tuttavia del fatto che il desiderio di lasciare qualcosa ai propri figli è una delle molle più potenti che inducono a lavorare, darsi da fare e quindi creare occupazione e sviluppo). L’intervento più importante possibile è quello sull’educazione. Anche esso naturalmente è solo parziale. Il primo soggetto della educazione è la famiglia ed è nella famiglia che si apprendono le virtù e le attitudini fondamentali. E’ vero però che qui la scuola ha un ruolo sussidiario ma fondamentale. Permettere che i giovani che vengono da famiglie modeste possano sviluppare a pieno le loro capacità intellettuali ed entrare sul mercato del lavoro con la massima dotazione possibile di capitale intellettuale è la cosa più importante che si possa fare per realizzare l’obiettivo della eguaglianza delle condizioni di partenza fra i cittadini.
Potremmo sintetizzare le cose dette fino ad ora nella affermazione che, in materia di politica economica, la differenza principale fra noi e la sinistra riguarda il mercato. Il mercato produce ricchezza ma al tempo stesso produce disuguaglianza. Per la sinistra il mercato è in linea di principio sospetto. Davanti al fallimento delle economie di comando (comuniste) la sinistra si è adattata ad accettare in qualche modo il mercato ma resta in fondo convinta che esso sia un male da controllare nel modo più stretto possibile. Noi pensiamo invece che il mercato sia in linea di principio positivo, anche se sappiamo che esso può generare ingiustizie ( non tutte le disuguaglianze però sono ingiustizie) e pensiamo che la politica abbia il dovere di orientare ed organizzare la solidarietà per porre rimedio ai fallimenti del mercato, per evitare che la persona umana concreta possa essere travolta e schiacciata dai meccanismi di mercato.
Come interverrà la politica per orientare il mercato? Il fallimento più grande del mercato è la disoccupazione di massa. E’ veramente terribile lo spettacolo di uomini che non hanno il necessario per vivere e non possono procurarselo con il loro lavoro. E’ proprio l’analisi di questo scandalo ciò che ha dato la massima forza di convincimento alla critica marxista del capitalismo. Nella economia capitalista – dice Marx- l’uomo non è un fine ma un mezzo. Il fine è l’accumulazione del capitale. Gli uomini troveranno lavoro solo se e finchè il loro lavoro sarà utile a generare plusvalore, un valore aggiunto di cui si appropriano i detentori dei mezzi di produzione. La economia di mercato, d’altro canto, è più efficiente di ogni altro tipo di economia proprio perché continuamente lo sviluppo della tecnica e l’affinamento della organizzazione del lavoro sono mirate a rendere possibile a un numero minore di persone di produrre ciò che prima veniva prodotto da un numero più grande. Quando in una impresa diventa possibile ottenere con il lavoro di dieci persone quello che prima si otteneva con il lavoro di dodici è intuitivo che dieci diventeranno più ricchi e due diventeranno disoccupati. Prima o poi anche i due disoccupati troveranno un nuovo lavoro, risponderanno ai nuovi bisogni che i dieci che sono diventati più ricchi sono adesso in grado di soddisfare e tutta la società vivrà meglio. Fra il prima ed il poi c’è però uno spettro che si chiama disoccupazione. Il disoccupato scopre di non avere nessun valore per il mercato e se il mercato è tutta la società questo vuol dire che non ha nessun valore per la società.
Il lavoro è una merce che si vende e si compra liberamente ed in questa situazione è insito il rischio che anche la persona venga ridotta al rango di merce. Una merce che nessuno vuole è una merce senza valore ed un lavoratore che nessuno vuole, un disoccupato, è un uomo senza valore.
Un poeta angloamericano , T.S. Eliot ha espresso in modo amarissimo la condizione del disoccupato:
"Nessun uomo ci ha impiegati.
Con le mani in tasca
Ed il capo chino
Ce ne andiamo in giro senza meta
O rabbrividiamo in stanze senza luce.
Solo il vento si muove
Sui campi vuoti, non coltivati
Dove l’aratro è fermo, di traverso
Al solco.
In questa terra ci sarà
Una sigaretta per due uomini
Per due donne soltanto una mezza pinta
Di birra amara ….
Il Times non da’ notizia della nostra nascita
E nemmeno della nostra morte."
Marx pensava che per rimediare a questo stato di fatto fosse necessario abolire il mercato e sostituirlo con il controllo pubblico di tutti i mezzi di produzione. Il risultato è stato fallimentare: senza mercato non cresce la produttività e la società diventa più povera. Il comunismo non realizza nemmeno l’eguaglianza: i beni prodotti vengono distribuiti secondo il merito politico e l’èlite politica si appropria la parte migliore.
Giorgio La Pira, un grande cristiano ed un grande democristiano, si pose lo stesso problema subito dopo la seconda guerra mondiale in Italia. Davanti al problema drammatico della disoccupazione di massa egli individuò nella economia keynesiana lo strumento per realizzare la piena occupazione. La Pira pensava che lo stato dovesse intervenire per creare il lavoro che il mercato non riusciva a creare. Lo stato interviene realizzando grandi opere pubbliche o anche dando risposta a bisogni sociali insoddisfatti (per esempio migliorando il sistema sanitario o il sistema pensionistico). Le opere pubbliche migliorano l’efficienza della economia e la spesa sociali mette più denari nelle mani della gente che li spende comprando le merci di cui ha bisogno e quindi stimolando le imprese che le producono a svilupparsi e ad assumere nuovi lavoratori. Lo stato diventa il datore di lavoro in ultima istanza, quello che attraverso le proprie decisioni di spesa (la legge finanziaria) determina la domanda di lavoro complessiva. E’ così semplice che sembra l’uovo di Colombo. C’è però un problema: chi paga per le opere pubbliche e per la spesa sociale? In altre parole: dove prende lo stato i soldi necessari per realizzare i posti di lavoro aggiuntivi necessari per raggiungere la piena occupazione? Se li preleva attraverso le tasse riduce la capacità di consumo e di investimento dei contribuenti e quindi la loro capacità di produrre ricchezza e posti di lavoro. E’ necessario che la spesa venga finanziata in deficit. Lo stato prende a prestito i denari o anche,semplicemente, stampa carta moneta. Se gli investimenti pubblici sono fatti in modo oculato è ragionevole immaginare che nel tempo essi si paghino da soli, cioè che essi generino un aumento di produttività che permetterà al paese di crescere ed in un paese più ricco crescerà anche il gettito fiscale e lo stato sarà in grado di pagare il suo debito.
Questa politica economica è stata fatta propria dai democratici cristiani e per un lungo periodo ha anche ben funzionato. Poi è entrata in crisi. Un primo motivo di crisi è che si presta a molti abusi.
Finchè si finanziano posti di lavoro produttivi è ragionevole pensare che essi nel tempo si ripaghino attraverso una crescita accelerata. E’ accaduto però che molte volte si siano finanziati posti di lavoro improduttivi e clientelari oppure che si siano sostenute in modo artificiale industrie ormai superate e non più competitive. Il risultato è stato un aumento insostenibile dell’inflazione e la esplosione del debito pubblico. Il paese si è diviso in una area che stava sul mercato esposta ai rischi della competizione internazionale ed un’area di lavoro protetto o anche di lavoro finto. Alla fine abbiamo avuto tassi elevati di inflazione e tassi elevati di disoccupazione contemporaneamente.
Il problema più grave però è stato un altro. Il modello keynesiano suppone un livello elevato di sovranità dello stato sull’economia. Con la globalizzazione proprio questo elemento è venuto meno.
Gli accordi GATT (General Agreement on Tariffa and Trade, Accordi Generali sulle Tariffe doganali E sul Commercio) hanno ridotto drammaticamente le tariffe doganali e gli ostacoli al commercio internazionale. Per molto tempo noi abbiamo compianto i paesi poveri ed abbiamo anche mandato loro ingenti aiuti internazionali. Contemporaneamente li abbiamo tenuti fuori del commercio internazionale. Molti economisti davano la colpa del sottosviluppo al mercato, ma in realtà i paesi poveri dal mercato erano esclusi, Con gli accordi di Punta del Este, invece, i paesi poveri sono entrati nel mercato mondiale ed hanno cominciato a migliorare le loro condizioni di vita. Oggi essi vendono da noi i loro prodotti e ci fanno concorrenza soprattutto a causa del costo del lavoro che è molto più basso del nostro.
Al centro del modello economico keynesiano c’era l’idea di "moltiplicatore". Immaginiamo che lo stato assuma mille lavoratori. Non creerà in questo modo solo mille posti di lavoro. I mille lavoratori spenderanno il loro salario acquistando beni di consumo che dovranno essere prodotti da altri lavoratori e, per lavorare, avranno bisogno di materie prime e strumenti di lavoro che dovranno a loro volta essere prodotti da altri lavoratori. La spesa statale fa crescere la domanda aggregata ed in questo modo la spesa sostenuta dallo stato viene "moltiplicata" per un coefficiente variabile a secondo del tipo di investimento o spesa pubblica che consideriamo. E’ questo appunto il moltiplicatore. In un sistema di economia aperta è proprio il moltiplicatore a non funzionare più. Nulla infatti garantisce che i lavoratori assunti direttamente o indirettamente dallo stato spendano i loro denari per comprare merci italiane. E’ possibile, anzi probabile, che una parte più o meno grande del loro reddito vada a comprare merci straniere creando in questo modo posti di lavoro, ma all’estero e non in Italia. Più l’economia si internazionalizza e meno è possibile utilizzare la spesa pubblica per produrre gli effetti voluti di maggiore occupazione. Lo stato perde il controllo del mercato perché il mercato diventa mondiale mentre lo stato rimane nazionale.
La globalizzazione agisce anche in un altro senso. Nello sforzo di evitare che il lavoratore sia ridotto al semplice ruolo di una merce fra le altre i governi democristiani avevano a suo tempo introdotto una elaborata legislazione del lavoro spostando i rapporti di forza all’interno dell’azienda a favore dei lavoratori. In particolare questo ha toccato il tema della stabilità del posto di lavoro. Se il lavoratore non è liberamente licenziabile, allora è difficile sostenere che il lavoro è semplicemente una merce o che il lavoratore diventa egli stesso una merce nella libera disponibilità del datore di lavoro. Per la verità questa legislazione del lavoro non ha funzionato molto bene. Da un lato non si è mai riusciti ad estenderla veramente a tutti i lavoratori. I lavoratori dello stato e della grande azienda hanno fruito di questi nuovi diritti, i lavoratori delle piccole aziende invece no. Dall’altro i sindacati non sono riusciti ad impedire che di esse si abusasse creando talvolta sacche di inefficienza e di improduttività che venivano alla fine pagate attraverso le tasse da tutti i contribuenti. Anche qui però, alla fine, il sistema si è rivelato incompatibile con la globalizzazione.
Se questi obblighi sono imposti a tutte le aziende che competono sul mercato allora essi non generano un vantaggio competitivo particolare a favore di alcune di esse. Ma se il mercato diventa mondiale le imprese poste fuori dei confini nazionali non sono sottoposte agli obblighi sociali sanciti dalla legislazione italiana. Il divario è particolarmente forte con i paesi poveri. I salari lì sono bassi e la protezione sociale del lavoro praticamente non esiste. Non reggendo questo svantaggio competitivo le imprese italiane rischiano di uscire dal mercato o di chiudere. Molte, per evitare questo destino o comunque per sfruttare le occasioni offerte dalla nuova situazione, "delocalizzano", cioè vanno a produrre in altri paesi e quindi cancellano posti di lavoro in Italia per crearne all’estero.
Per tutti queste ragioni la economia keynesiana viene progressivamente abbandonata a partire dalla fine degli anni ’70. Passa, fra gli economisti e gli studiosi di politica economica, un nuovo indirizzo teorico, legato alla cosiddetta scuola di Chicago di Milton Friedman o anche alla elaborazione della scuola austriaca di F.von Hayek. Si tratta di indirizzi accentuatamente liberisti che chiedono che vengano liberate le energie del mercato e della libera iniziativa riducendo il sistema di vincoli e di "lacci e laccioli" che imprigionano gli "spiriti animali" del mercato. In effetti i paesi che hanno adottato coerentemente politiche liberiste di deregolamentazione dei mercati hanno avuto regolarmente tassi di crescita più elevati ( molto più elevati) di quelli che sono rimasti legati al vecchio modello keynesiano. La rivoluzione è stata iniziata da Ronald Reagan negli Stati Uniti e da Margaret Thatcher in Gran Bretagna. Successivamente queste politiche sono state adottate in molti paesi per lo più con effetti positivi. Abbiamo assistito, in un certo senso, ad una grande rivincita della destra liberale. E’ una vittoria contro la sinistra, simbolizzata dalla caduta del muro di Berlino. Ma è anche una vittoria contro il centro. La Pira, infatti, e anche J.M. Keynes non erano uomini di sinistra ma di centro. Non erano contro il mercato e non erano a favore di una eguaglianza astratta. Si domandavano invece in che modo sia possibile fare in modo che il mercato sia al servizio della persona umana, in che modo si possa rimediare ai fallimenti del mercato.
Cosa diremmo noi a La Pira se fosse vivo e se potessimo parlare con lui? Gli diremmo che ha sbagliato tutto o che i democristiani di oggi hanno cambiato di atteggiamento umano fondamentale e sono diventati indifferenti alle "attese della povera gente"? No, gli diremmo semplicemente che condividiamo la sua preoccupazione per i poveri e per gli ultimi, la sua passione bruciante per ogni singola persona umana e per la sua dignità. Semplicemente per realizzare la medesima intenzioni oggi dobbiamo inventarci strumenti diversi, all’altezza della epoca storica nella quale viviamo. Eguale è l’intenzione di evitare che il lavoratore venga degradato al rango di merce, diversi sono i mezzi con cui quel fine può essere perseguito nel nostro tempo. Succede in politica economica la stessa cosa che succede in medicina. Con il tempo sono cresciuti nuovi batteri resistenti agli antibiotici (penicillina, streptomicina) che usavamo per curare le malattie ancora fino a non molti anni fa’. La scienza medica, naturalmente non si è arresa ma si è messa alla ricerca di altri mezzi di cura. La stessa cosa fa’ oggi la politica di centro. In un contesto cambiato cerca nuovi strumenti per affermare il primato del valore della persona sui valori del mercato.
Intorno a noi vediamo da un lato un liberismo ed un liberalismo dottrinari. E’ quella destra che vive oggi una grande rivincita contro le politiche keynesiane e che vorrebbe un mondo in cui il ruolo dello stato fosse ridotto al minimo assolutamente indispensabile: la difesa esterna ed interna, la giustiziagli affari esteri ed il bilancio. Qualcuno si è sforzato di immaginare persino in che modo sarebbe possibile privatizzare anche la giustizia o la difesa esterna e interna sostituendole con meccanismi di mercato (es. Marray Rothbard). Noi non siamo liberali dottrinari. Se mai siamo liberali pragmatici: sappiamo che le politiche keynesiane nel mondo di oggi non funzionano e devono quindi essere abbandonate, non riteniamo però che fosse sbagliata la preoccupazione etica che portò i democristiani ad adottare quelle politiche e intendiamo farla valere con mezzi diversi in un mondo che è cambiato. A sinistra invece c’è spesso una difesa disperata del passato. I risultati dell’epoca democristiana furono, al tempo della loro introduzione, aspramente contrastati dalla sinistra che allora voleva la collettivizzazione. Adesso vengono difesi come se realizzassero il paradiso perduto dei lavoratori. Questo atteggiamento è assai insidioso, perché fra la gente c’è in verità molta nostalgia di un mondo del lavoro più regolato e meno rischioso. Fra i lavoratori c’è ansia e c’è preoccupazione e la reazione immediata è quella di difendere il sistema che ha funzionato in passato cercando in tutti i modi di reprimere la coscienza del fatto che esso ormai da tempo ha cessato di funzionare. Fra il liberismo dottrinario ed il feticismo del passato bisogna aprire di nuovo il cammino del realismo, della difesa concreta dei diritti dell’uomo e dei diritti del lavoro nella società che cambia. E’ questo il compito del centro.
Che fare? Abbiamo già sottolineato che il problema ha una dimensione globale. La politica non governa più l’economia perché l’economia è globale e la politica è soltanto nazionale. E’ necessario che la politica recuperi almeno in parte la sua sovranità. E’ necessario iniziare un percorso per arrivare ad un General Agreement on Wages and Labour ( un accordo generale sui salari e le condizioni di lavoro) che complementi ed integri gli accordi GATT (General Agreement on Tariffa and Trade). Occorre cioè globalizzare la protezione dei diritti del lavoro. Gli effetti negativi della situazione attuale cominciano del resto a vedersi. In alcuni paesi i lavoratori non godono di nessuna protezione e sono esposti ad uno sfruttamento vergognoso che è particolarmente intollerabile quando colpisce le donne ed i bambini. Si tratta spesso di paesi sottoposti a dittature comuniste che non danno garanzie sui diritti umani, reprimono la libertà di parola e di religione e non consentono libertà di organizzazione sindacale e di lotta per la difesa dei diritti del lavoro. Certo, bisogna essere realisti. Nonostante tutto questi paesi, da quando sono entrati nel mercato globale, hanno realizzato straordinari miglioramenti. In molti casi la condizione precedente lasciava moltissimi lavoratori esposti al rischio realissimo della morte per fame. Di più: per poter vivere questi paesi avranno bisogno per un periodo ancora relativamente lungo di poter avere un costo del lavoro più basso del nostro e di una legislazione di tutela del lavoro meno stringente. E tuttavia è tempo di iniziare un percorso che porti verso una globalizzazione graduale dei diritti del lavoro. In quegli stessi paesi i lavoratori cominciano a reclamare un miglioramento della loro condizione. Modi di produzione che non proteggono la salute dei lavoratori hanno effetti nocivi anche sulle merci che vengono messe sul mercato. Noi abbiamo, per esempio, in Europa regolamenti stringenti sull’uso delle sostanze chimiche nei processi di produzione, a tutela della salute dei lavoratori e di quella dei consumatori. Nei paesi emergenti spesso non vi è in questo ambito nessuna regola e è capitato spesso che prodotti di quei paesi dovessero essere ritirati dal mercato perché pericolosi. Quanti dei prodotti che noi importiamo resisterebbero ad un esame rigoroso che dimostri che essi sono stati fatti obbedendo alle stesse regole che noi ci siamo dati a tutela dell’ambiente e dei consumatori? E possiamo totalmente disinteressarci della salute dei lavoratori che hanno prodotto quelle merci, nel caso che i danni si estendano solo ai lavoratori ed anche ai consumatori? E saremo del tutto indifferenti al fatto che le merci che importiamo e consumiamo siano state prodotte, per esempio, con il lavoro schiavo dei bambini? Sia chiaro: noi non proponiamo un atteggiamento neoprotezionista. Dire ai paesi emergenti che non possono esportare sui nostri mercati significherebbe cercare di ricacciarli nella situazione di disperazione di qualche decennio fa’. Sarebbe come dire che l’unico modo di migliorare la loro condizione è fare la guerra a noi perché l’ordine internazionale che noi difendiamo li condanna alla fame ed alle malattie. Possiamo però vincolare l’accesso ai mercati ricchi dell’Europa e del Nordamerica ad un livello minimale e crescente dei diritti umano in generale e dei diritti del lavoro in particolare. Questo farebbe bene ai lavoratori di quei paesi ma farebbe bene anche ai lavoratori dei nostri paesi, specialmente quelli che hanno qualifiche più basse e lavorano in settori esposti alla concorrenza del lavoro a basso costo dei paesi emergenti. La competizione avverrebbe più sulla innovazione e sulla qualità del prodotto e meno sulla compressione dei salari e delle garanzie per i lavoratori. Per arrivare agli accordi GATT è stato necessario un processo negoziale lunghissimo , difficile e complicato. E’ ovvio che arrivare ad accordi internazionali per la difesa dei diritti del lavoro significa affrontare difficoltà probabilmente ancora più grandi. Occorre grande pazienza e grande determinazione. Il passo più difficile di un lungo percorso è però il primo e questo primo passo oggi è necessario fare. Si potrebbe partire forse dagli stessi accordi GATT che contengono alcune clausole che possono essere applicate alla difesa del lavoro e procedere poi verso un trattato complessivo con norme più precise e stringenti.
L’Italia non può procedere da sola su questo percorso. E’ necessario costruire un ampio sistema di alleanze internazionali, a partire dalla Unione Europea. Fino ad oggi l’Unione Europea non è riuscita ad unirsi su di un progetto di difesa dei diritti del lavoro all’interno dei propri confini. Questo è in parte dovuto al fatto che i paesi excomunisti avevano bisogno in una prima fase, per poter vivere e svilupparsi, di sfruttare al massimo la loro risorsa principale: il lavoro a basso costo. Esistono anche resistenze di altri tipo, più ideologiche, provenienti da quel liberismo dogmatico a cui già abbiamo accennato e che è forte soprattutto nei paesi anglosassoni. Esse vanno comunque superate perché è difficile proporre con autorevolezza una accordo mondiale sulla difesa dei diritti del lavoro se non esiste almeno un abbozzo di politica sociale comune europea.
Su di una cosa dobbiamo essere chiari: anche dopo un auspicabile recupero di sovranità della politica sulla economia, un ritorno alle politiche assistenziali tipiche degli anni della decadenza del keynesismo non è possibile e nemmeno desiderabile. Una cosa è finanziare il deficit grandi lavori pubblici, dove si può ragionevolmente sperare che con il tempo i vantaggi dell’opera facciano corrispondentemente aumentare il prodotto complessivo, un’altra cosa è semplicemente aumentare la spesa pubblica pagando chi fa’ finta solo di lavorare o finanziando imprese sistematicamente in perdita che consumano più di quanto producano. Questo non solo è impossibile ma è anche immorale. Il compito sociale dell’impresa è produrre ricchezza per far fronte ai bisogni sociali. Una impresa che sistematicamente consuma ricchezza invece di produrla è una truffa a danno dei contribuenti che devono sussidiare un lavoro socialmente inutile.
In ogni caso prima che la politica possa recuperare sovranità sulla economia dovrà passare del tempo ( almeno alcuni decenni). Come si governa la economia italiana in questo lasso di tempo? Che politiche econo0miche possono essere efficaci in una fase storica in cui l’economia è più forte della politica?
Le politiche tradizionali miravano a difendere il posto di lavoro. La non licenziabilità del lavoratore lo difendeva dalla disoccupazione, lo tutelava dalle possibili angherie del datore di lavoro, ne garantiva la dignità umana e faceva in modo che non fosse ridotto al rango di un qualsiasi fattore produttivo il cui uso dipende esclusivamente dalla sua capacità di produrre un utile per l’impresa.
La tutela del posto di lavoro fisso supponeva una serie di condizioni che sono rapidamente venute meno. Essa era plausibile in una epoca storica in cui la innovazione tecnologica era relativamente lenta. Oggi il progresso tecnico/scientifico ed organizzativo rende necessaria una grande ristrutturazione in media ogni cinque o sei anni. In queste ristrutturazioni posti di lavoro vengono cancellati e molti mestieri spariscono. Quando nella costruzione delle automobili l’acciaio per molti usi è stato sostituito dalle materie plastiche o da leghe di tipo diverso per molti posti di lavoro non c’è stata salvezza. Non fare la ristrutturazione significa uscire dal mercato e dovere chiudere. Farla significa che molti lavoratori devono essere licenziati. Davanti al rischio di disoccupazione in una grande azienda sembra ragionevole mobilitarsi, chiedere che i licenziamenti vengano revocati e magari alla fine chiedere che lo stato rilevi lui l’azienda e la faccia andare avanti anche se essa è diventata antieconomica. In realtà oggi questo è impossibile. Per un verso questo significa consumare risorse invece di produrne aggravando le condizioni di lavoro e di vita degli altri lavoratori. Per un altro aspetto all’interno del mercato comune europeo un simile comportamento è vietato. Si chiama "aiuto di stato" e non è consentito perché distorce la concorrenza. Infine se si impone ad una impresa di rinunciare a decisioni che sono diventate improrogabili per la sua vita ed il suo sviluppo è sempre possibile che l’azienda abbandoni il territorio nazionale e si "delocalizzi" vada cioè a produrre in un altro posto. Alla fine per impedire alcuni licenziamenti in una azienda che avrebbe potuto essere salvata si finisce con il fare perdere il posto di lavoro a tutti i lavoratori di quella azienda. La necessità del cambiamento e della riduzione dei posti di lavoro può essere il risultato di cambiamenti tecnologici, ma può anche essere il risultato del fatto che entrano sul mercato del lavoro paesi nuovi con un costo del lavoro di molti più basso. Anche in questo caso una azienda italiana può essere costretta a cambiamenti drastici, che implicano la perdita di molti posti di lavoro.
Che fare? Bisogna distinguere a questo proposito fra strategie di lungo periodo e strategie di breve periodo. Nel lungo periodo la politica può intervenire rendendo conveniente per le imprese il restare o il venire in Italia. Bisogna porsi la domanda: perché le imprese dovrebbero venire a produrre in Italia? L’Italia è un luogo buono per lavorare prima di tutto a causa della qualità dei suoi lavoratori. Allora bisogna migliorare la qualità dei lavoratori italiani. I paesi emergenti ci fanno concorrenza su produzioni a basso costo del lavoro ed a basso contenuto informativo ( in cui è investita poca tecnologia e poca cultura). Se vogliamo sfuggire ad una concorrenza fondata sull’abbassamento del costo del lavoro dobbiamo imparare a fare cose che i paesi emergenti non sanno fare. Mille analfabeti non sanno fare il lavoro di un solo ingegnere. Dobbiamo aumentare il livello della nostra scuola e della nostra università. Dobbiamo spiegare agli studenti che a scuola si va per imparare, che la scuola può essere dura ma non sarà mai dura come la vita e che quindi a scuola bisogna dare il meglio di se. Parole come impegno, disciplina, sforzo, merito devono tornare ad avere un senso per i nostri studenti. Dobbiamo produrre un maggior numero di brevetti ed avere un maggior numero di prodotti basati sulla nostra ricerca scientifica. Prodotti così sono difficilmente imitabili e la concorrenza, in questo campo, non si fa’ sul basso costo del lavoro ma sulla qualità della ricerca che sta dietro il prodotto. Dobbiamo investire sulla scuola, sull’università e sulla ricerca scientifica. Dobbiamo ridurre la spesa corrente per accrescere l’investimento in educazione. Per fare questo abbiamo però bisogno di una scuola e di una università che funzionino davvero, in cui gli insegnanti bravi vengano premiati e quelli cattivi svantaggiati o licenziati e corrispondentemente venga premiato il merito degli studenti. Egualmente importante è il problema della formazione professionale. Noi italiani non siamo molto forti nella tecnologia pesante e solo una parte limitata delle nostre esportazioni è protetta da brevetto. Siamo invece dei campioni nella innovazione in ambiti a tecnologia leggera nei quali la qualità del disegno o della fattura artigianale ci permettono di ottenere risultati di assoluta eccellenza. Spesso però questi saperi artigianali non sono sufficientemente curati. La trasmissione di questi saperi attraverso un sistema di formazione professionale di qualità è parte anch’esso di una strategia per la valorizzazione del lavoro italiano.
L’Italia attira insediamenti produttivi anche per la sua collocazione geografica e per il sistema infrastrutturale di cui è dotata. Se si produce nei paesi emergenti occorre poi affrontare spesso costi molto elevati per raggiungere i mercati di sbocco che sono collocati nei paesi più ricchi. Il processo produttivo tende a concentrarsi in quelle aree dalle quali è più facile l’accesso ai mercati. Il rafforzamento del sistema infrastrutturale è un altro elemento che attira investimenti produttivi.
Inevitabilmente l’Italia dovrà perdere molte produzioni ma potrà acquistarne altre. Anche i processi di delocalizzazione possono essere orientati in modo tale da ridurre gli svantaggi ed accrescere i vantaggi ad essi legati. Spesso si possono spostare in altri paesi le lavorazioni che richiedono più lavoro poco qualificato e mantenere in Italia quelle a maggior valore aggiunto. Per articolare così su ampi spazi i processi produttivi è però necessario disporre di sistemi logistici di alta qualità e di assoluta affidabilità. La logistica diventa il perno strategico dello sviluppo.
Tutte le politiche che abbiamo sommariamente elencato richiedono tempi lunghi per andare a regime. Se si risana la università oggi e si inizia una linea produttiva di ricerca scientifica i risultati non arriveranno prima di alcuni anni. Egualmente se impostiamo oggi un grande programma di rafforzamento del sistema logistico italiano passerà qualche decennio prima che le opere siano completate e si vedano i risultati.
Nel frattempo che fare? Dobbiamo rendere più flessibili i nostri sistemi di lavoro e non possiamo costringere le aziende a ritardare i processi di ristrutturazione per difendere posti di lavoro che non hanno più alcun senso economico. Invece di ostinarci nella difesa impossibile di posti di lavoro ormai inevitabilmente obsoleti dobbiamo concentrarci sulla difesa del lavoratore che ha perso il posto di lavoro. In altre parole: non possiamo mettere la solidarietà a favore del lavoratore che perde il posto di lavoro interamente a carico dell’impresa che ha bisogno di ristrutturare. E’ allora necessario garantire al lavoratore un reddito adeguato nel periodo di disoccupazione, legato alla frequenza di corsi di formazione orientati che gli permettano di riqualificarsi recuperando per quanto possibile la sua professionalità precedente ed orientandosi verso i nuovi mestieri e le nuove opportunità offerte dal mercato. Come abbiamo già detto il sistema di libero mercato cambia continuamente la divisione del lavoro umano cancellando posti di lavoro ma anche creando nuove opportunità. Ecco il perché è così importante quella flessibilità che oggi viene invocata ad ogni piè sospinto come la chiave della competitività del nostro sistema. Non si può difendere chi sta fermo. Bisogna imparare a muoversi in un mondo che cambia ed aiutare il lavoratore a valorizzare al meglio le proprie potenzialità in un ambiente che si trasforma.
Naturalmente nessuno può vivere in una situazione di instabilità permanente. L’uomo desidera naturalmente sfruttare le opportunità che gli si offrono, ma l’uomo ha anche un originario bisogno di sicurezza. Essere membro di una comunità, avere degli amici, appartenere ad un sindacato domani sarà più importante di quanto non lo sia oggi. Le reti di sicurezza di domani non potranno essere tutte concentrate nelle mani dello stato. Esse saranno tanto più efficaci quanto più saranno decentrate e rese vicine all’utente. Per questo sarà fondamentale la dimensione comunitaria secondo il principio di sussidiarietà. Sarà importante sia la sussidiarietà verticale (il trasferimento di funzioni dallo stato alle regioni ed ai comuni) sia quella orizzontale ( il trasferimento di funzioni dallo stato alle famiglie, alle associazioni ed alle comunità volontarie).
La solidarietà della fase nuova che stiamo vivendo deve essere una solidarietà mobile, non statica. E deve essere una solidarietà che lavora insieme al mercato e non contro di esso. Questo punto è particolarmente importante: nella sinistra italiana vi è un atteggiamento fortemente radicato di ostilità contro il mercato. La solidarietà viene opposta al mercato come fra solidarietà e mercato esistesse una contraddizione di principio come se per fare solidarietà fosse necessario sempre e comunque distorcere i meccanismi di mercato. Il nostro approccio è diverso. Non crediamo in una armonia prestabilita fra mercato e solidarietà ma non crediamo nemmeno in una opposizione di principio. Pensiamo anzi che quando si riesce a fare lavorare insieme in sinergia mercato e solidarietà i risultati sono migliori. In generale questo avviene quando la solidarietà non è centralizzata a livello statale ma decentrata sul territorio e valorizza anche le associazioni volontarie e soprattutto le famiglie. La chiave per coniugare in modo creativo mercato e solidarietà è il principio di sussidiarietà.
Torniamo adesso alle condizioni che attraggono investimenti, capitale e lavoro sul territorio di uno stato. La nostra analisi non sarebbe completa se non nominassimo, accanto alla qualità della forza lavoro ed al livello delle infrastrutture, anche il livello della imposizione fiscale.
Abbiamo accennato al fatto che le produzioni si globalizzano. Sempre più spesso le diverse componenti di un diverso prodotto si producono in paesi diversi e sono poi combinati fra loro e montati ancora in altri paesi. Il risultato è che rapporti internazionali si intrecciano all’interno della medesima azienda ed è sempre più facile scegliere in modo perfettamente legittimo il domicilio fiscale della propria azienda, cioè il luogo in cui pagare le tasse. La competizione fra i diversi paesi per attrarre investimenti e posti di lavoro sul proprio territorio diventa quindi inevitabilmente competizione fiscale. Un paese che abbia livelli di imposizione più alti di quelli dei suoi competitori rischia di perdere contribuenti ed entrate fiscali ma anche investimenti e posti di lavoro. E’ necessario quindi arrivare ad un chiarimento in linea di principio in materie di politiche fiscali: scopo della tassazione è ridistribuire il reddito secondo modelli egualitaristici o favorire una abbondanza di posti di lavoro e dei occasioni di guadagno per i lavoratori? Se il nostro obiettivo è una società egualitaria avremo tasse elevate e meno posti di lavoro, se privilegeremo il secondo avremo una società prospera e solidale.
Tutte queste questioni vanno inquadrate, come noi peraltro abbiamo cercato di fare, nell’ottica della globalizzazione. Gli ottimisti dicono che alla fine la globalizzazione porterà più benessere e prosperità per tutti. I pessimisti pensano invece che essa sia un mostro destinato a travolgere la nostra società e la nostra cultura generando sofferenze e lutti. Noi tendiamo ad essere piuttosto ottimisti ma non ci nascondiamo il fatto che nel medio periodo la globalizzazione porta con se anche enormi problemi. La globalizzazione è positiva perché i paesi poveri del mondo hanno finalmente una vera occasione per crescere. La globalizzazione crea però tre tipi di problemi.
Esistono paesi poveri che non sono riusciti ad agganciare la globalizzazione. Sono soprattutto i paesi dell’Africa e (in parte) dell’America Latina. Questi paesi rischiano di perdere una occasione storica e di precipitare in un abisso ancora molto peggiore di quello nel quale si trovano.
Esistono problemi per i poveri dei paesi ricchi. Le produzioni a contenuto tecnologico più povero ed a minore valore aggiunto si spostano dai paesi ricchi ai paesi poveri. I lavoratori meno qualificati dei paesi ricchi perdono il posto di lavoro. Bisogna governare il processo creando milioni di posti di lavoro nuovi in settori non esposti alla concorrenza dei paesi emergenti, posti di lavoro ad alto contenuto tecnologico o posti di lavoro nei servizi o nel turismo. Nel lungo periodo, naturalmente, ci si avvierà ad una certa parificazione dei salari nei paesi ricchi e nei paesi poveri, ma per una intera generazione noi dobbiamo mantenere una certa superiorità tecnologica se vogliamo pagare ai nostri giovani salari che consentano loro di mantenere un tenore di vita che noi consideriamo accettabile.
Dalla globalizzazione usciranno profondamente cambiati i rapporti fra le nazioni. Alcuni grandi paesi usciranno dal sottosviluppo e dalla povertà (p.es. Cina ed India). Altri perderanno relativamente di peso. Qualche paese ricco che non riesca ad adeguarsi al cambiamento potrebbe scivolare nella povertà. L’Italia ha qualche motivo di preoccupazione: sono diversi anni che il paese non cresce o comunque cresce meno dei paesi che sono suo punto di riferimento. E’ evidente che l’Italia tarda a comprendere il nuovo sistema delle relazioni economiche internazionali e ad inserirsi in esso.
Se volgiamo lo sguardo al dibattito politico in corso in Italia su questi temi vediamo che esso si concentra sulla cosiddetta legge Biagi , di cui la sinistra chiede di fatto l’abolizione.
Il sistema italiano di protezione del lavoro si è incardinato a lungo sulla difesa del posto fisso. Con il tempo è però diventato sempre più evidente che la difesa del posto di lavoro fisso si paga con la riduzione dei posti di lavoro disponibili. Se non esiste la possibilità di licenziare in caso di necessità le aziende preferiscono non assumere e rinunciano anche a possibilità di ingrandirsi e crescere. Piuttosto che assumere per far fronte a nuove commesse la cui durata è però incerta nel tempo si preferisce non rischiare chiudendosi nella propria nicchia di mercato. In realtà poi la garanzia del posto di lavoro non si estende in modo eguale a tutti i lavoratori. Ne sono esclusi i lavoratori delle piccole imprese, quelle con meno di quindici addetti. Di nuovo: le imprese spesso preferiscono non crescere per non doversi assoggettare a vincoli eccessivi. Spesso nascono intricate piccole holding che hanno solo la funzione di d spezzettare un processo produttivo di per sé unitario per non superare in nessuna delle aziende coinvolte il limite fatidico dei quindici occupati. Ancora più grave è il fatto che molte unità produttive lavorano in tutto o in parte in nero. Moltissimi lavoratori lavorano senza nessuna garanzia e fuori della legalità. I lavoratori dell’Italia emersa godono di garanzie probabilmente superiori a quelle di qualunque altro paese europeo. Quelli dell’Italia sommersa lavorano senza nessuna garanzia.
Da questa situazione si comincia ad uscire con il cosiddetto pacchetto legislativo Treu e poi con la legge Biagi. Benché siano stati approvati l’uno da un governo di centrosinistra e l’altro da un governo di centrodestra l’ispirazione dei due provvedimenti è sostanzialmente la stessa, tanto che possono essere considerati come due tappe di un unico processo riformatore. Si tratta fondamentalmente di legalizzare il lavoro a termine. Allo spirare del tempo del contratto l’impresa ha la scelta di rinnovarlo oppure no. A questo si aggiungono forme di collaborazione che in teoria sarebbero prestazioni di servizio all’azienda da parte di lavoratori indipendenti ma in realtà sono spesso mascheramenti più o meno ben riusciti di forme di lavoro dipendente. Queste riforme hanno realizzato un vero e proprio miracolo: l’occupazione è cresciuta e la disoccupazione è corrispondentemente diminuita da poco meno del 12% della forza lavoro a poco più del 7%. Per molti giovani lavoratori il contratto a termine si è poi consolidato in contratto di lavoro a tempo indeterminato. Per altri invece no. Residua un’area importante di lavoro precario. Si diffonde così la parola d’ordine della lotta al precariato. Che fare? Da un lato dobbiamo tutti renderci conto del fatto che in un mondo mobile la probabilità di dovere cambiare lavoro almeno una volta nella vita è elevata. Per questo è necessario per tutti non adagiarsi mai, tenere gli occhi aperti, migliorare la propria qualificazione professionale e le proprie capacità di ricollocarsi sul mercato del lavoro. Dall’altro è pur vero che per formulare un progetto di futuro, sposarsi, comprare una casa etc… un certo grado di stabilità è pure necessario. La stabilità è pure necessaria per sentire di appartenere ad una impresa intesa anche come comunità di persone. Senza il sentimento di appartenenza non cresce la partecipazione ai fini dell’impresa e non cresce quindi neppure la capacità di dare ad essa un contributo creativo. Il problema di camminare verso la stabilità e di superare la precarizzazione dei rapporti di lavoro dunque esiste. Che fare? E’ necessaria una proposta coraggiosa per andare oltre la legge Biagi. Rispetto ad essa non si può tornare indietro, se non si vuole trasformare tanti precari in disoccupati. E’ però possibile uscire dal precariato in avanti. E’ necessario istituire un contratto a tempo indeterminato che non contenga però la clausola di inamovibilità del lavoratore. Come abbiamo già ricordato il paese con il minimo livello di lavoro precario è la Danimarca. La Danimarca è però un paese in cui è possibile licenziare in caso di necessità pagando una giusta penale ma in cui nessun datore di lavoro è mai stato obbligato a tenersi un lavoratore per il quale non avesse una occupazione produttiva. Ovviamente questa libertà di uscire dal rapporto di lavoro va accompagnata con altri provvedimenti a cui abbiamo già accennato: il sussidio di disoccupazione, la formazione professionale e l’aiuto nella ricerca di un nuovo lavoro. L’ideale è l’accompagnamento da posto a posto di lavoro.
Le riforme che siamo venuti proponendo chiedono un dialogo nuovo da condurre con il movimento sindacale. Nel sindacato italiano ha avuto a lungo la prevalenza la cultura del posto fisso e della difesa del posto fisso. Adesso è necessario cambiare. Alcuni pensano che il cambiamento possa avvenire solo attraverso un grande scontro sociale concluso con la sconfitta del sindacato. Qualcosa di analogo a ciò che accadde in Gran Bretagna quando il sindacato dei minatori guidato da Scargill dovette cedete davanti a Lady Thatcher e da lì iniziò il declino dei sindacati in Inghilterra.
Noi crediamo che sia per l’Italia una grande ricchezza l’esistenza, nel movimento dei lavoratori, di forti componenti di tradizione non marxista che sanno capire le nuove esigenze del mondo del lavoro, che contrattano duramente in difesa dei lavoratori ma hanno anche una visione non ideologica simile alla nostra che le aiuta a vedere quali sono i veri interessi di lungo periodo dei lavoratori. Speriamo dunque che su questi temi sia possibile il dialogo con il sindacato e nel sindacato. Nel mondo di domani i lavoratori avranno bisogno ancora di sindacati dedicati alla difesa dei loro diritti ed alla organizzazione della solidarietà dei lavoratori. Questi sindacati dovranno inevitabilmente essere diversi da quelli a cui ci hanno abituato gli anni della guerra fredda e della lotta di classe , dovranno essere sindacati non della lotta di classe ma della solidarietà.
Siamo partiti da Giorgio La Pira, dalla sua passione per i poveri e dal suo ascolto delle "Attese della Povera Gente". Siamo partiti da La Pira che è stato il vero teorico del keynesismo per ragioni cristiane. I tempi sono cambiati ma le finalità ed i valori restano gli stessi: difendere la persona umana, impedire che essa si riduca ad essere solo un ingranaggio del mercato o, peggio, che venga dilaniata dai meccanismi di mercato. Con i tempi devono però cambiare anche gli strumenti ed i meccanismi politici attraverso i quali i valori vengono realizzati. Nell’epoca della globalizzazione la difesa dell’uomo non coincide con la difesa del posto di lavoro fisso: bisogna passare dalla tutela del posto di lavoro alla tutela del lavoratore, e questa tutela deve essere sufficientemente flessibile ed intelligente per accompagnare il lavoratore da un posto di lavoro ad un altro. E’ , questo, l’approccio di un liberalismo pragmatico e non dogmatico che non rinnega il compito dello stato nel superare i colli di bottiglia dello sviluppo ma sa riconoscere in generale il ruolo del mercato come strumento di libertà ed in particolare le condizioni particolari che il nostro tempo, il tempo della globalizzazione, impone alla nostra ricerca di una politica al servizio della persona umana.
Siamo partiti da La Pira. In chiusura vogliamo ricordare fugacemente l’insegnamento di un altro grande del pensiero democratico cristiano, don Luigi Sturzo. Sturzo diffidò sempre (in certi momenti in modo perfino esagerato) dello statalismo in economia. Non che egli non vedesse i molteplici effetti positivi che possono nascere da un intervento dello stato ben orientato e consapevole dei propri limiti. Egli però temeva lo statalismo: la "concupiscentia irresistibilis", che spinge lo stato ad accumulare poteri sempre più grandi nelle sue mani, a distorcere il mercato, a premiare i fedeli e non i meritevoli, a sostenere in caso di necessità le corporazioni più forti facendo pagare i costi dell’intervento alla generalità dei cittadini, ed in modo maggiore a quelli più bisognosi. Anche Sturzo era un liberale non dottrinario ma pragmatico, come noi vogliamo essere. Agli inizi di un secolo nuovo noi vogliamo portare in esso il bagaglio dei valori che non cambiano ma vogliamo affrontare i problemi nuovi che stanno davanti a noi con la libertà di pensiero e la curiosità intellettuale che solo possono aiutarci a scoprire le "idee ricostruttive" della politica all’altezza delle sfide del tempo nuovo.